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Corsa agli armamenti, nel mondo e in Medio Oriente

Terrasanta.net
23 gennaio 2022
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Corsa agli armamenti, nel mondo e in Medio Oriente

Le spese militari sono in continua crescita a livello globale. Come si situano i Paesi mediorientali, tra conflitti aperti e tensioni geopolitiche? Nonostante i dati mancanti di alcuni governi, gli investimenti bellici restano una priorità nella regione. Alcuni dati.


L’inizio di ogni anno porta con sé auspici di pace. Oltre che nel messaggio per la Giornata mondiale per la Pace (primo gennaio), il Papa ne ha parlato nel discorso al Corpo diplomatico del 10 gennaio. Ha avvertito come la diplomazia multilaterale attraversi da tempo una crisi di fiducia e il sistema multilaterale sia indebolito, sempre meno efficace nell’affrontare le sfide globali.

Un segnale evidente è dato delle spese militari che nel mondo hanno raggiunto nel 2020 la quota di 1.981 miliardi di dollari (cioè 1.730 miliardi di euro). Vent’anni prima questa spesa (a parità di prezzi) era di 1.140 miliardi: la crescita è evidente. Rispetto all’anno precedente, è aumentata del 2,6 per cento, mentre l’economia mondiale, a causa della pandemia, calava del 4 per cento.

Anche se il Medio Oriente – come annunciano molti esperti di geopolitica – fosse destinato a perdere quella centralità nelle dinamiche internazionali che ha avuto per decenni, resta una zona cruciale per i destini di pace del mondo e anche una delle aree più militarizzate. Il Papa, nel discorso ai diplomatici ha ricordato la Siria, «dove ancora non si vede un orizzonte chiaro per la rinascita del Paese», e lo Yemen, «una tragedia umana che si sta consumando da anni in silenzio, lontano dai riflettori mediatici».

La proposta fatta nel dicembre 2021 da oltre cinquanta premi Nobel e presidenti di Accademie delle scienze di ridurre la spesa militare globale del 2 per cento ogni anno, fermando la corsa agli armamenti, mira a liberare risorse enormi per metterle a disposizione di cause migliori come la lotta alle epidemie, alla povertà e ai cambiamenti climatici. Grande sarebbe il «dividendo della pace».

Una de-escalation delle spese militari avrebbe un forte impatto, non solo simbolico, sul Medio Oriente e Nord Africa, dove Siria, Yemen sono Paesi in guerra, il mondo sciita e sunnita collidono nel confronto tra Iran e Arabia Saudita, profonde fratture politiche dividono anche gli stessi Paesi a maggioranza sunnita, potenze esterne – in primis Usa e Russia – sono direttamente coinvolte con ingenti forze e, infine, il conflitto israelo-palestinese resta senza soluzione.

Le maggiori spese militari relative

Alcuni dati forniti dal Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, offrono un quadro delle spese militari nella regione e a livello globale. In termini assoluti, la spesa complessiva di 11 Paesi del Medio Oriente – Nord Africa, di cui si conoscono i dati è stata, di 143 miliardi di dollari nel 2020. Significa il 4,8 per cento del Pil della regione. È circa del doppio della media mondiale, anche se nel 2020 si è registrato un calo nella spesa per armi, almeno in tali Paesi di cui si conoscono i dati.

Il principale importatore di armi della regione resta l’Arabia Saudita, impegnata dal 2015 nella guerra in Yemen, che ha ridotto di circa un decimo la spesa nell’ultimo anno. Secondo una stima del Sipri, nel 2020 Riad ha investito nella difesa 57,5 miliardi di dollari: si tratta del sesto Paese al mondo, seguito nell’area da Israele (21,7), Turchia (17,7) e Iran (15,8 miliardi di dollari).

Ma ci sono altri modi per misurare l’entità delle spese militari, ad esempio, quanto pesano rispetto alla ricchezza totale di un Paese. Ben sette dei dieci Paesi al mondo con il maggiore fardello di spese militari si trovano proprio in Medio Oriente e Nord Africa: Oman (11 per cento del suo prodotto interno lordo), Arabia Saudita (8,4), Algeria (6,7), Kuwait (6,5), Israele (5,6), Giordania (5) e Marocco (4,3). Gli altri Stati di questa poco invidiabile classifica sono Armenia, Azerbaigian e Russia.

Un altro istituto di ricerca, il Centro internazionale di studi sui conflitti (Bicc) con sede a Bonn (Germania) stila invece l’indice di militarizzazione globale, che misura la rilevanza dell’apparato militare nei diversi Stati, in relazione alla società nel suo complesso. È valutato non solo attraverso la spesa per armi e soldati, ma anche attraverso l’entità degli armamenti e della popolazione in armi. In base ai criteri usati dal Bicc, Israele è il Paese più militarizzato al mondo, con quasi 170 mila effettivi su 9 milioni di abitanti, 465 mila riservisti e oltre il 5 per cento del Pil speso per la difesa. Nella top ten della classifica relativa al 2019 compaiono dopo Israele anche altri Paesi della regione: Oman, Bahrain, Arabia Saudita, Kuwait e Giordania.

Dati, un problema di trasparenza

Il Sipri rileva anche che una grave mancanza di trasparenza nei dati sulle spese militari, informazioni che aiuterebbero a conoscere l’impatto sulle dinamiche della sicurezza. Dei venti Paesi della regione, almeno cinque non forniscono dati. Tra questi Siria, Yemen e Libia che versano da anni in situazioni di guerra, sia tra fazioni interne, sia per l’intervento di truppe regolari e milizie irregolari di Paesi stranieri.

Ci sono poi Qatar ed Emirati Arabi Uniti che non vivono alcun conflitto interno e godono, anzi di una situazione privilegiata e, con Israele, hanno il reddito pro capite più alto di tutto il Medio Oriente. Tuttavia, non forniscono informazioni sulle loro (ingenti) spese militari. Basti ricordare la visita del presidente francese Emmanuel Macron all’inizio di dicembre 2021 a Dubai, in occasione della vendita agli Emirati Arabi di 80 aerei da combattimento Rafale.

Dopo la crisi politica tra Qatar e Arabia Saudita del 2017, il piccolo e opulento emirato di mezzo milione di abitanti ha acquistato dalla Francia 12 Mirage 2000, una serie di velivoli da trasporto e 46 elicotteri. Ha firmato almeno 30 miliardi di dollari in contratti con gli Usa per 36 caccia F-15QA e 24 elicotteri Apache; con la Gran Bretagna contratti per 24 Eurofighter Typhoon e con l’Italia per 28 elicotteri NH-90, venduti dall’azienda Leonardo nel 2018. È previsto che in sette anni le forze aeree dell’emirato aumentino di nove volte. Il numero di aerei è talmente sproporzionato rispetto alle dimensioni del Paese che Doha ha un accordo con la Turchia, il suo principale alleato nella regione, per dispiegare una serie di caccia sul suolo turco. Intanto la Marina del Qatar ha quasi raddoppiato le sue dimensioni.

Anche gli investimenti nella produzione interna di armamenti sono tra i fattori della scarsa trasparenza. Turchia ed Emirati Arabi negli ultimi anni hanno scalato le classifiche dei maggiori esportatori di armi. Gli Emirati Arabi in vent’anni sono passati dal 42° al 19° posto nel mondo come esportatore di materiali bellici. Non solo hanno deciso di intervenire nel conflitto in Libia e in Yemen, ma hanno anche trasferito arsenali in quei Paesi.

Restano tuttavia le potenze del G7, i grandi Paesi democratici, a contribuire a gran parte della spesa militare. Nel 2020 svettavano ovviamente gli Usa con 778 miliardi di dollari, seguiti da Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone, Italia e Canada, per un totale di poco più di mille miliardi di dollari: 10 per cento della popolazione mondiale e 52 per cento della spesa militare. Insieme a Russia, Spagna, Cina e Sud Corea, i Paesi del G7 sono i più grandi esportatori di armi.

Un saggio del politologo Mark Leonard, The age of unpeace, descrive bene il senso di deperimento dei rapporti pacifici tra nazioni: una pace in via di dissolvimento progressivo. Papa Francesco nel messaggio di Capodanno ha detto che, in ogni epoca, la pace è insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso: «C’è una “architettura” della pace, dove intervengono le diverse istituzioni della società, e c’è un “artigianato” della pace che coinvolge ognuno di noi in prima persona. Tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico». (f.p.)


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