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Restaurazione a Kabul, l’Afghanistan ai talebani

Giampiero Sandionigi
16 settembre 2021
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Restaurazione a Kabul, l’Afghanistan ai talebani
A Kabul il 7 settembre 2021 il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, annuncia la formazione del governo ad interim guidato dal mullah Mohammad Hassan Akhund. (foto Saifurahman Safi/Xinhua)

In agosto si è gretolata rapidamente la presenza delle forze occidentali in Afghanistan ed è tornato il governo dei talebani, scalzato vent'anni fa. Il problema degli esuli e della loro accoglienza.


A ferragosto si sono sbriciolate di schianto le ultime previsioni occidentali sull’Afghanistan. I talebani hanno preso la capitale Kabul (e quasi tutto il resto del Paese) nel giro di poche ore, non settimane. L’esercito governativo – senza paga da mesi – s’è squagliato come neve al sole abbandonando le armi al nemico; il presidente Ashraf Ghani se ne è andato alla chetichella negli Emirati Arabi Uniti per evitare inutili spargimenti di sangue. Finale contemplato dalle clausole segrete degli accordi firmati a Doha il 29 febbraio 2020 tra i talebani e la Casa Bianca di Donald Trump?

Le forze statunitensi e alleate hanno avuto due settimane di tempo per provare ad evacuare con un ponte aereo 300 mila afghani filo-occidentali (alla fine ne sono partiti 120 mila). L’emirato del 1996-2001 è stato restaurato nel cuore dell’estate, con il suo già noto bagaglio di divieti e idiosincrasie: niente jeans; niente musica profana; niente sport che esponga il corpo delle donne; niente volto rasato per gli uomini; niente classi miste dopo le elementari; niente manifestazioni di protesta nelle piazze né libertà di stampa; niente viaggi in solitaria per le donne non accompagnate da un parente maschio.

Dalla Casa Bianca il presidente Joe Biden ha più volte ribadito che lasciare l’Afghanistan dopo vent’anni era la scelta giusta da fare, anche se la ritirata è avvenuta in maniera scomposta. La guerra ai talebani era persa da un pezzo: le forze occidentali, incapaci di controllare il territorio, puntellavano una classe dirigente locale troppo corrotta per piacere al popolo.

Arroccati nei loro rifugi, in patria o in Pakistan (il Paese che li patrocina), gli «studenti del Corano» di etnia pashtun hanno pazientemente atteso la rivincita. Per quanto grezzi possano apparire, essi sanno come finanziarsi con mezzi leciti o illeciti e non è detto che l’Afghanistan debba soccombere. Il sottosuolo è ricco di minerali. Ferro, rame, oro, uranio, bauxite, lapislazzuli fanno gola a molti. A Pechino, ad esempio, che ambisce pure alle terre rare afghane e all’apertura di nuove (quanto antiche) rotte commerciali. Che ci sia a Kabul un governo stabile e non nemico, disposto a rinunciare all’idea di sostenere la minoranza musulmana uigura in Cina, è negli auspici dei cinesi. Assai simili le attese russe.

Rappresentanti di Turchia, Cina, Russia, Qatar, Iran, Pakistan sono stati invitati alla cerimonia di insediamento del governo talebano ad interim – per nulla inclusivo, né pluralista – fissata all’11 settembre (ma poi cancellata – ndr). La concomitanza con il ventennale degli attentati negli Stati Uniti non è casuale. Come non lo è l’assegnazione di cinque ministeri ad altrettanti ex detenuti a Guantanamo, né la consegna dei principali dicasteri a personalità che Washington e l’Onu considerano criminali. I talebani restano un movimento composito. Forse l’ala pragmatica e più attenta alla buona fama del Paese guadagnerà posizioni in futuro.

I Paesi vicini o lontani sono intanto chiamati a dare speranza agli afghani espatriati nelle ultime settimane. Ce lo ricordano le parole che papa Francesco ha pronunciato il 5 settembre: «In questi momenti concitati che vedono gli afghani cercare rifugio, prego per i più vulnerabili tra loro. Prego che molti Paesi accolgano e proteggano quanti cercano una nuova vita. Prego anche per gli sfollati interni, affinché abbiano l’assistenza e la protezione necessarie. Possano i giovani afghani ricevere l’istruzione, bene essenziale per lo sviluppo umano. E possano tutti gli afghani, sia in patria, sia in transito, sia nei Paesi di accoglienza, vivere con dignità, in pace e fraternità coi loro vicini».

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