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Le mire turche su Kabul

Elisa Pinna
6 agosto 2021
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La Turchia di Recep Tayyip Erdogan si candida a presidiare l’aeroporto internazionale di Kabul, punto nevralgico per mantenere aperto un canale tra l'Afghanistan e il resto del mondo. Proviamo a capire perché.


Nemmeno i sultani ottomani, nel momento della loro massima espansione, erano riusciti ad avvicinarsi all’Afghanistan. Ora però, mentre gli americani e i loro alleati se ne vanno e i talebani riconquistano il Paese travolgendo truppe governative e signori della guerra locali, ecco che la Turchia di Recep Tayyip Erdogan si candida a presidiare e proteggere l’aeroporto internazionale di Kabul, punto nevralgico per mantenere aperto un canale con il resto del mondo, garantire l’arrivo e la partenza di persone e merci, di diplomatici e aiuti umanitari.

Il presidente turco, a cui non manca certo audacia strategica e capacità di giocare su più fronti, ne ha parlato con il presidente statunitense Joe Biden, sin dal giugno scorso, ottenendo un condizionato «via libera», sufficiente a mettersi in azione. Così, mentre la Nato ammaina ufficialmente bandiera e, dopo 20 anni, si ritira umiliata e sconfitta dall’Afghanistan, Erdogan lavora sottotraccia e controcorrente per creare un avamposto turco, sotto l’ombrello però dell’Alleanza atlantica. Il piano prevede l’appoggio degli Stati Uniti e degli altri Paesi membri, oltre che la collaborazione diretta, sul terreno, del Pakistan e dell’Ungheria (anch’essa membro Nato dal 1999).

Ora, mentre è facile intuire perché Erdogan voglia coinvolgere il Pakistan, principale sponsor e protettore dei talebani, c’è da chiedersi cos’abbia a che fare l’Ungheria con uno scenario così esplosivo. Niente, da un punto di vista geo-strategico; molto, in termini di guadagno politico. In rotta con l’Unione Europea sulla questione dei diritti civili, il premier ungherese Viktor Orban guarda all’altra sponda dell’Atlantico per cercare sostegno e riconquistare prestigio; in quest’ottica ha accettato di buon grado di fare da spalla alla Turchia.

Il “neo-sultano” turco Erdogan ha sfruttato con astuzia i dissapori intraeuropei, per imbarcare nella missione una seconda nazione Nato e inviare a Washington un messaggio più rassicurante sulle sue intenzioni in Afghanistan, dopo lo scontro con gli alleati in Libia e in Siria. Due fonti diverse tra loro – la televisione panaraba qatariota Al Jazeera e un sito di informazioni semi-indipendente iraniano, Fararu – descrivono in termini molto simili la duplice ambizione del capo di Stato turco: innanzitutto costruirsi un ruolo di leadership, alternativo a quello dell’Arabia Saudita, tra i musulmani sunniti non arabi dell’Asia centrale; una presenza strategica in Afghanistan costituirebbe il punto di arrivo di una marcia di avvicinamento, scandita dalle crescente influenza turca nei Paesi musulmani dell’ex Unione Sovietica e da un corteggiamento del Pakistan, accompagnato da accordi commerciali e politici (tra cui il progetto di un treno che unirebbe le due capitali) e finalizzato a spezzare l’asse tra Islamabad e sauditi.

Pur senza sbocchi sul mare, l’Afghanistan – ricorda Fararu – non è solo un territorio strategico su cui tutti vogliono mettere le mani per controllare le rotte commerciali dell’Asia centrale, ma anche una nazione che possiede un sottosuolo ricco di risorse minerarie e naturali ancora da sfruttare, dall’oro al ferro al litio, valutate – scrive il sito farsi – in circa tremila miliardi di dollari. Per di più Ankara considera l’Afghanistan una parte del mondo turco per la rivelante minoranza di turkmeni che vi vivono e per antiche radici comuni, un substrato ideologico e culturale da non sottovalutare.

Il secondo obiettivo di Erdogan è quello di accrescere il proprio potere in seno alla Nato, dimostrando che solo la Turchia può muoversi in certe aree di confine, dove il gioco si fa duro. Stavolta la missione di Erdogan sembra avere però molti ostacoli: intanto per la concorrenza di altri giocatori, pronti a sostituirsi al vuoto lasciato dagli Stati Uniti e finora rimasti muti davanti alla proposta turca di appropriarsi dell’aeroporto internazionale. Iran, Cina e Russia sono Paesi confinanti e hanno interessi vitali da difendere. Inoltre i negoziati avviati dalla diplomazia turca su molteplici e opposti tavoli sono tutt’altro che semplici. Già il tavolo con gli alleati occidentali è piuttosto ostico, perché in pochi, dopo Libia e Siria, sono disposti a concedere carta bianca ai turchi.

Ancora più incerto il tavolo negoziale con quelli che appaiono nuovamente i dominatori dell’Afghanistan. Perché mai il Pakistan e i talebani dovrebbero accettare la presenza turco-ungherese, oltre tutto sotto l’egida della Nato, quando ben presto avranno tutte le province afghane in loro pugno? Certo – fa notare Al Jazeera – i pakistani potrebbero approfittare della proposta di Erdogan per piazzare ufficialmente le loro truppe nel Paese confinante, senza delegare tutto agli studenti islamici, che sono sì una loro creatura, ma non per questo offrono una garanzia di fedeltà eterna. Dai talebani – riferisce Fararu – è intanto arrivata una parziale apertura il 15 luglio scorso: «Né l’Emirato islamico dell’Afghanistan (come si definiscono i fondamentalisti) né il popolo afghano sono contrari alla Turchia. Però non vogliamo una Turchia che rappresenti la Nato», ha dichiarato il portavoce dei talebani Zabih al Mujahid. Si continua dunque a trattare. I tempi stringono. A settembre gli ultimi soldati dell’Alleanza atlantica lasceranno l’Afghanistan. Tra di loro ci sono 500 militari turchi, presenti dal 2001 sotto le insegne della Nato con compiti di logistica e non di combattimento, in buoni rapporti con tutti i clan locali e con gli studenti islamisti. Mancano poche settimane per capire se anche loro dovranno ritirarsi o se invece rimarranno e si rafforzeranno con uno status nuovo e ben più importante, aggiungendo un ulteriore tassello ai sogni espansionistici di Ankara.

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