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L’Egitto in Rete, mano pesante dei moralizzatori

Laura Silvia Battaglia
30 giugno 2021
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La vicenda di Mawada al-Adham e Haneen Hossam due ragazze egiziane incarcerate per contenuti, considerati inappropriati, pubblicati sulle reti sociali. Il loro non è un caso isolato.


Condannate a 10 anni di carcere e a una multa di 200mila sterline egiziane (circa 10.750 euro). L’accusa è «traffico di esseri umani» e violazione dei valori morali su cui poggia l’istituzione della famiglia egiziana. Il tutto per un pugno di video su TikTok in cui Mawada al-Adham e Haneen Hossam cantavano e ballavano vestitissime e consigliavano ad altri utenti come monetizzare le loro apparizioni sui social media. La sentenza choc è stata pronunciata in Egitto e, per il momento, a nulla valgono le petizioni on line, le denunce di Amnesty International, le richieste degli attivisti locali e la presa di posizione pubblica in loro favore della top model internazionale Bella Hadid e di sua sorella, la stilista Alana Hadid, che hanno reso virali gli hashtag #freemawada e #freehaneen.

La vicenda occorsa alle due ragazze, provenienti da Nasr City, non è la prima: al momento almeno 12 giovani donne influencer sono chiuse nelle carceri egiziane, alle condizioni che queste impongono (dalla scarsa assistenza legale alla denutrizione, alle torture), tutte accusate di aver usato la piattaforma per violare i «valori della famiglia» con «pratiche immorali» (un reato punibile con sei mesi di reclusione e una pesante multa) a cui adesso si aggiungono altre accuse. La campagna per la loro liberazione si sta diffondendo sempre più. Il sostegno delle sorelle Hadid è stato pubblicato sulla pagina Instagram The Femail Diary, curata da Merhan Keller.

Reem Abdellatif, egiziana-americana residente in Olanda, amica di Keller, sostenitrice dei diritti umani e giornalista che si è unita a The Femail Diary come creatrice di contenuti, spiega come e perché è in atto una stretta, in Egitto, contro le influencer su TikTok. «Dal momento che i tecnicismi dei social media e la monetizzazione sono concetti ancora estranei e non comunemente considerati dalla magistratura egiziana, i pubblici ministeri hanno equiparato questi annunci video di giovani donne al traffico di esseri umani – spiega Abdellatif –. Mawada e Haneen sono due ragazze che non rappresentano un pericolo per la società né sono ricercate per altri crimini. Entrambe versano in pessime condizioni, la loro salute si sta deteriorando e le loro vite sono state completamente sconvolte». La stessa pagina Instagram di Keller ospita parecchie influencer egiziane: The Femail Diary era stato infatti lanciato come un modo per creare uno spazio sicuro per le donne e le ragazze egiziane, dove potessero discutere le questioni più importanti per loro, dall’autonomia corporea, alla sessualità fino alla psicologia femminile. Si è trasformato, invece, in un osservatorio ottimale per i “consulenti” del nuovo pubblico ministero, Hamada al-Sawy, che ha istituito un’unità di monitoraggio dedicata ai social media dal 2019.

Secondo il giornalista e ricercatore egiziano Nourhan Fahmy, intervistato dalla testata elettronica The New Arab, questa unità, «mentre ha un impatto positivo nel monitoraggio di denunce di molestie, come nel caso recente dello stupratore seriale di “buona famiglia” – lo studente dell’American University del Cairo, Ahmed Bassam Zaki, figlio di un magnate delle telecomunicazioni, che ha stuprato più di 50 ragazze, facendo partire il movimento #metoo egiziano, proprio dalle confessioni via social media – ci sono innumerevoli altri casi che coinvolgono giornalisti, difensori dei diritti umani e, più recentemente, le ragazze di TikTok». Secondo Fahmy «alcuni cittadini egiziani maschi, sono disposti ad agire come “custodi” di questi presunti valori sociali e continuano a tracciare e segnalare le donne vlogger, o semplicemente qualsiasi donna o ragazza che trasmetta video ritenuti inappropriati».

Il problema è che l’accusa, ossia il pubblico ministero, prende sul serio queste affermazioni, continua a indagare, sanziona, arresta e condanna. Allo stato attuale dei fatti Keller e altre influencer stanno cercando una via per dialogare con il governo egiziano e dimostrare che il mondo dei social media risponde ad altre logiche e che suona assurda l’accusa nei confronti di queste ragazze – quasi tutte studentesse universitarie provenienti dalla piccola borghesia egiziana – di aver tentato di utilizzare la piattaforma in modi «immorali», per costruirsi un grande seguito e fare soldi. Ma non è affatto detto che ci riescano. Giustamente, molti commentatori sottolineano anche in questo caso, la doppiezza del regime di al-Sisi: reprime le donne per avere ottenuto un presunto guadagno dai social media, ma esclude questa fascia della popolazione dai lavori ben remunerati, mentre la classe media si impoverisce sempre di più. Nello stesso tempo, il governo incarcera le donne accusandole di prostituzione per aver postato un selfie sui social media svelando il capo, ma sostiene il divieto del velo integrale (niqab) all’università.

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