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Pasqua samaritana, il rito ai piedi del monte Garizim

testo e immagini di Beatrice Guarrera
28 aprile 2021
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Il 25 aprile scorso alle falde del Monte Garizim, non lontano da Nablus in Cisgiordania, i samaritani hanno celebrato la loro Pasqua, secondo l'antico rito biblico che prevede il sacrificio di agnelli.


Da millenni la piccola comunità dei samaritani, che vive ai piedi del monte Garizim, ripete in modo identico il rito del sacrificio di Pesach. È un giorno di festa per questo antichissimo popolo che è resistito intatto dall’Ottavo secolo a.C. fino a oggi. Un giorno di gioia ancor di più perché quest’anno il rito, che ha avuto luogo il 25 aprile, ha potuto svolgersi normalmente, al contrario del 2020. Nella giornata della vigilia, infatti, il villaggio dei samaritani, che si trova nei pressi di Nablus, è tornato a riempirsi di visitatori locali, accorsi per assistere al suggestivo rito. Senza distanziamento e senza mascherine, non più d’obbligo in luoghi all’aperto, si respira un’aria di normalità a Kiryat Luza, così come è chiamato il villaggio.

Identità e libertà

I colori sgargianti dei vestiti e i tacchi alti delle donne già dal mattino raccontano che il primo dei giorni di Pesach è speciale per tutti, scandito da momenti preordinati, nell’attesa di recarsi al tramonto nella piazza del sacrificio. «Questo è il giorno della liberazione per noi», spiega una donna seduta davanti alla sinagoga del villaggio. Così come gli ebrei, anche i samaritani nella festa di Pesach celebrano, infatti, la fine della schiavitù sotto il Faraone e l’esodo dall’Egitto verso la terra promessa da Dio. Ogni anno con la festa torna il rito del sacrificio degli agnelli, così come comandato nel libro dell’Esodo.

I samaritani amano definirsi semplicemente «israeliti» e discendenti da tre delle dodici tribù di Israele: Giuseppe, Levi e Manasse. Sembra che il loro nome derivi dal territorio di Samaria appunto, anche se il vocabolo ebraico shomrim significa letteralmente «gli osservanti». Per loro è fondamentale ancora oggi credere nei cinque principi della fede: non esiste altro Dio che il Signore d’Israele; l’unico profeta è Mosè, figlio di Amram; gli unici testi sacri sono i cinque libri della Torah; l’unico luogo santo è il Garizim, il monte delle benedizioni menzionato nella Torah; il giorno della fine dei tempi arriverà un Salvatore, discendente dalla linea di Giuseppe.

«Anche i giovani ci tengono a osservare i precetti della nostra fede e lo fanno veramente», assicura la donna che incontriamo nella piccola strada principale, dove anche tanti ragazzi sono radunati. Tra i precetti più importanti, oltre che abitare nei confini della terra d’Israele, ci sono pure l’osservanza della circoncisione e della festa dello Yom Kippur; la partecipazione al rito della Pasqua; l’osservanza dello Shabbat e delle leggi di purità e impurità definite nella Torah. A proposito di Torah va osservato che tra il testo sacro a cui fanno riferimento i samaritani e la versione giudaica esistono seimila discrepanze.

I riti di Pesach

Il giorno di Pesach, dopo aver trascorso la giornata scambiandosi visite familiari e con i sacerdoti della comunità, a cui portano delle offerte, arriva il momento tanto atteso. I membri della comunità si cambiano gli abiti e si vestono di bianco, prima di dirigersi alla piazza del sacrificio degli agnelli, che non si trova sul monte Garizim, ma in un’apposita area ai suoi piedi. Lì ogni membro maschio della famiglia porta il proprio animale da sacrificare, mentre altri rappresentanti della comunità accendono i forni dove verranno cotte successivamente le carni. Tutta la comunità si riunisce in quel luogo prima che i sacerdoti inizino la preghiera al tramonto. Per le strade si sente parlare in arabo, ma poi le preghiere sono in ebraico antico. In un caos carico di attesa, i sacerdoti cantano le parole della Sacra Scrittura e, ad un momento prefissato, si procede all’unisono con il sacrificio degli agnelli sotto gli occhi di tutta la comunità. Grida di gioia ed entusiasmo pervadono la folla: è la Pasqua del Signore, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e così i samaritani compiono gli stessi segni. I capi famiglia segnano la fronte dei figli con il sangue degli animali sacrificati, come quando, nel libro dell’Esodo, Dio ordinò al popolo di Israele di marcare gli stipiti delle loro porte con del sangue di agnello: «Così che quando io vedrò il sangue, passerò oltre e non vi sarà piaga su di voi per distruggervi, quando colpirò il paese d’Egitto» (Esodo 12, 13). Il rito del sacrificio si conclude a tarda notte, quando le carni degli animali, dopo essere state cotte in grandi forni, verranno consumate dai presenti.

Il rito attira ogni anno diversi curiosi: da giornalisti locali a religiosi cristiani, ebrei secolari e ultraortodossi. Il rapporto con il mondo ebraico, però, è problematico dai tempi della frattura definitiva con i samaritani consumatasi molti secoli fa. Nell’Ottavo secolo a.C. il popolo ebraico disconobbe i samaritani come «autentici israeliti», in quanto essi si erano mescolati con la popolazione pagana introdotta dagli assiri. I samaritani ottennero da Alessandro Magno il permesso di erigere un proprio luogo santo sul monte Garizim. Secondo la loro tradizione, è lì che Abramo avrebbe legato Isacco per il sacrificio ed è lì che tre volte all’anno ancora oggi si recano in pellegrinaggio, in occasione delle feste di Pesach, Shavuot e Sukkot.

Un popolo in due villaggi

Oggi il popolo dei samaritani è ridotto a circa ottocento persone che risiedono tra Kiryat Luza e Holon, centro urbano poco a sud di Tel Aviv. Per assicurare una discendenza alla comunità, i sacerdoti, da qualche anno, hanno autorizzato gli uomini a prendere in moglie anche donne non samaritane (che devono però convertirsi e accettare tutte le norme di comportamento), mentre le donne samaritane non possono fare lo stesso.

Grazie alla triplice cittadinanza – palestinese, israeliana e giordana – i samaritani godono di tutti i diritti che sono invece negati ai loro vicini palestinesi di Nablus. Secondo un recente articolo del quotidiano Haaretz, però, oggi i giovani samaritani vivono sempre di più la sofferenza di non sentirsi integrati realmente in nessuno di questi mondi. Molti vorrebbero frequentare le università israeliane, ma non hanno una conoscenza dell’ebraico sufficiente. Non hanno l’obbligo di servire nell’esercito israeliano, eppure alcuni giovani vorrebbero farlo, per sentirsi parte della società. Altri lavorano quotidianamente nella città di Nablus, ma poi fanno le pratiche per ottenere la patente di guida nel vicino insediamento israeliano.

Kiryat Luza ha una condizione particolare, essendo divisa fra le tre aree amministrative dei Territori palestinesi stabilite dagli accordi di Oslo del 1993: Area A (sotto il pieno controllo civile e di sicurezza palestinese), Area B (sotto il controllo civile palestinese e controllo di sicurezza congiunto) e Area C (sotto il pieno controllo civile e di sicurezza israeliano). A spiegare bene la confusione che caratterizza la vita quotidiana di un abitante di Kiryat Luza, ci ha pensato lo studioso samaritano Benyamim Tsedaka: «Come samaritani, ci svegliamo nell’Area B, onoriamo il nostro monte santo nell’Area C, e andiamo a lavorare nell’Area A».

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