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L’industria del cinema, ultima nata in Arabia Saudita

Laura Silvia Battaglia
27 luglio 2020
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Prima si sono affacciati su YouTube, ora si fanno strada su Netflix. Sono i primi contenuti della neonata industria cinematografica saudita che puntano al mercato mondiale. Fare cinema era proibito in Arabia fino a non molto tempo fa.


Dopo Jiin, interamente prodotta e girata in Giordania, sbarca sulla piattaforma Netflix la seconda serie araba al 100 per cento e la prima in assoluto prodotta in Arabia Saudita. Si intitola Takki e racconta la storia di un giovane regista che insegue il suo sogno: scrivere e produrre film e buttarsi nel mondo del cinema, attività fino a poco tempo fa vietata nel Regno dei Saud.

La serie è prodotta da Uturn, società che fa parte del gruppo di media e tecnologia Webedia Arabia, e che sviluppa contenuti creativi per i consumatori arabi.

Nato inizialmente come un fenomeno di YouTube, dove è apparso nel 2012, Takki è scritto e prodotto da Mohammad (Anggy) Makki. Il titolo della serie significa «rilassarsi» nel dialetto arabo parlato in Arabia Saudita e ha guadagnato una grande popolarità tra i giovani per il suo approccio progressista, rendendola una delle serie mediorientali più apprezzate su YouTube.

In Takki non si inseguono solo sogni di gloria, ma si perseguono anche obiettivi più concreti, spesso determinati dai cambiamenti sociali: la serie, infatti, affronta anche questioni di genere, come le donne al volante, e registra il passaggio dalla fase dei divieti a quella dei permessi sociali.

«In una regione priva di contenuti rilevanti per la gioventù saudita, raccontare una storia molto local è stata la chiave per il nostro successo. Inoltre, l’Arabia Saudita è piena di stelle nascenti e attraverso Uturn abbiamo messo insieme una serie di talenti in incubazione. Questo è il nostro modo di contribuire a rimodellare il futuro dei contenuti e della cultura digitale saudita», afferma Kaswara al-Khatib, capo del gruppo Webedia Arabia, fondatore e anima di Uturn.

Il gruppo Webedia Arabia si muove nel solco del progetto di sviluppo fortemente voluto dal principe Mohammed bin Salman e denominato Saudi Vision 2030. «Ci siamo posizionati sul mercato per sviluppare contenuti che possano raggiungere il pubblico di tutto il mondo», dice al-Khatib.

Netflix ha recentemente acquistato la prima serie-thriller saudita intitolata Whispers e ha premiato sei cortometraggi sauditi che affrontano tematiche sociali di rilievo.


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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