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Noi “unorthodox”, testimonianze da Israele

Beatrice Guarrera
14 giugno 2020
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Noi “unorthodox”, testimonianze da Israele

Riscuote grande successo in tutto il mondo la miniserie televisiva Unorthodox, che mette a fuoco il difficile itinerario degli ebrei ultraortodossi che decidono di lasciare le loro comunità. In Israele l'associazione Out for change accompagna i loro passi. Storie di vita vissuta.


«Questa è la mia storia», si è detto l’attore Jeff Wilbusch mentre leggeva per la prima volta il soggetto della serie Unorthodox. «È la mia storia, perché vengo dalla comunità Satmar del quartiere ultraortodosso di Mea Sharim a Gerusalemme», ha spiegato Wilbusch alle due creatrici della serie vista da milioni di persone in tutto il mondo e prodotta da Netflix (l’ormai celebre società produttrice e distributrice di prodotti cinematografici e televisivi via web a livello planetario – ndr).

Lanciata il 26 marzo 2020, Unorthodox è basata sull’autobiografia, pubblicata nel 2012, di Deborah Feldman, un’ex ultraortodossa della comunità Satmar di Williamsburgh a Brooklyn. Proprio lì è ambientata la storia della giovane protagonista, Ester, intrappolata in un matrimonio combinato e nella vita della comunità chassidica da cui cerca di uscire.

Nella serie, Jeff Wilbusch (31 anni) recita nei panni di Moishe, personaggio a metà tra il mondo ultrareligioso e quello laico, che aiuterà il marito di Ester nella ricerca di sua moglie, scappata da Williamsburgh. Pur partendo dal vissuto personale della Feldman, la vicenda raccontata è frutto della creazione degli sceneggiatori. La stessa sofferenza e la stessa battaglia interiore, però, caratterizzano il percorso di chi – nella vita vera – prova a lasciare la comunità ultraortodossa da cui proviene. Lo testimonia anche Jeff Wilsbuch, che a tredici anni lasciò la famiglia e i tredici fratelli, per provare a costruirsi una vita nuova.

La storia di Jeff

«Quello di Moishe è forse il personaggio più realistico perché si trova tra due mondi senza la possibilità di andare né da una parte né dall’altra – ha spiegato Wilsbusch –. Il mondo fuori è spaventoso per chi non ci ha mai vissuto e per questo esistono organizzazioni come Out for Change, che aiutano chi è cresciuto ultraortodosso». È proprio durante un recente incontro video online, organizzato dall’associazione israeliana Out for Change che Jeff Wilsbusch ha raccontato la sua storia.

«Non ho mai trovato il mio posto in quel mondo – ha confidato alle centinaia di partecipanti connessi –. Dovevo andare via e ho provato a scappare la prima volta all’età di dodici anni. Chiamai mio nonno con una telefonata a carico del destinatario e lui mi disse che i miei zii si sarebbero presi cura di me, ma poi loro mi riportavano sempre indietro. Ero molto problematico e ho cambiato varie città e scuole, perché nessuno mi voleva al 100 per cento». Dopo una vita tra Amsterdam e Monaco, oggi Wilsbuch ha due lauree e un diploma artistico. Il difficile rapporto con la famiglia d’origine (nel frattempo trasferitasi a Manchester, in Inghilterra) è ancora un tasto dolente per l’attore, che solo dopo anni di silenzio, è tornato a parlare con i genitori. «Una volta abbiamo avuto un dialogo con mia madre in cui siamo arrivati alle lacrime – racconta Jeff emozionato –. Lei mi ha detto che le dispiaceva di come fossero andate le cose e io le ho detto che le voglio bene. Da quel momento abbiamo ricominciato a parlare».

Un processo non facile

La difficoltà di integrarsi nella società israeliana per i giovani ultraortodossi nasce anche dalla mancanza delle conoscenze più basilari di matematica, biologia, scienze. Materie che non si studiano nelle scuole religiose. Circa 1.300 persone all’anno in Israele cercano di lasciare il contesto haredi in cui sono cresciute, secondo l’associazione Out for Change, fondata nel 2013 da ex ultraortodossi desiderosi di aiutare quanti decidono di iniziare un percorso di integrazione nella società laica. «Onestamente, il processo non è affatto facile – spiega Bruria Avraham, 29 anni, ex ultraortodossa e responsabile delle comunità Out for Change di Gerusalemme e Tel Aviv –. C’è bisogno di colmare molte lacune: quando lasciamo il nostro ambiente d’origine, non conosciamo la cultura a cui andiamo incontro, non capiamo molte volte neppure la lingua. Dovremo trovare lavoro senza alcuna esperienza e farci nuovi amici. Spesso la comunità da cui proveniamo ci isolerà e il rapporto con la famiglia sarà difficile. È importante dunque non vergognarsi di chiedere aiuto lungo la strada». Come associazione, Out for Change si impegna a sostenere chiunque voglia uscire dalla propria comunità ultraortodossa, fornendo un’assistenza personalizzata nei settori dell’istruzione superiore, del servizio militare, dell’occupazione. Alla base c’è l’idea del grande potenziale che hanno gli ex haredi, del contributo che possono dare alla società israeliana e della necessità di offrire loro opportunità pari a quelle dei coetanei.

Una moto per la libertà

Tra i fondatori di Out for Change c’è anche Esterina Trachtenberg, una ex haredi cresciuta a Gerusalemme. «Sentivo di non essere parte di tutto quel mondo, mi facevo domande e soffrivo – racconta –. Sono la seconda di dodici figli e quindi ero costantemente sotto pressione, perché dovevo aiutare, dovevo pulire, stare con i miei fratelli, essere a volte una madre per loro». Esterina, che a quel tempo si chiamava solo Ester, ha imparato a leggere all’età di quattro anni. «Ho un ricordo sfocato di me stessa – continua –. A casa avevamo solo libri religiosi e così un giorno sono andata in una biblioteca. Lì ho incontrato la prima persona che si è presa cura di me: una bibliotecaria comunale. È stata la prima che mi ha aperto le porte della conoscenza. Mi metteva da parte gli ultimi libri di Harry Potter, perché io potessi averli per prima, ma con i miei genitori litigavo sempre perché non volevano che leggessi libri fantasy e di scienza».

Proprio l’interesse per il mondo scientifico porta Esterina a offrirsi come volontaria in Magen David Adom (la versione israeliana della Croce Rossa). Il punto di svolta arriva con la sua decisione di frequentare corsi per colmare le lacune scolastiche e poter sostenere l’esame di maturità, che non è previsto nelle scuole ultraortodosse. «La mia famiglia mi disse che se avessi voluto lasciare la mia scuola religiosa, sarei dovuta andare via di casa – continua Esterina –. Avevo sedici anni e per mantenermi iniziai a lavorare in una casa per persone con disabilità. Poi ho studiato in una scuola di infermieristica e più tardi ho fatto un’esperienza di volontariato all’estero, che mi ha cambiato molto. Ho capito che ci sono milioni e milioni di persone nel mondo diverse da me». Dopo un master in Israele e due anni a Cambridge, Esterina oggi è ricercatrice in neuroscienze all’Università di Tel Aviv, collabora con un sito di divulgazione scientifica ed è volontaria per Out for Change.

«Quando gli ultraortodossi lasciano la comunità in cui sono nati è molto importante considerare il loro background personale – spiega Esterina –. I miei, per esempio, sono emigrati dalla Russia prima che io nascessi. I nuovi religiosi sono spesso outsider e vogliono essere “i migliori” tra gli osservanti. Di solito soffrono perché hanno un’altra lingua e cultura e perché hanno paura di quello che i vicini potrebbero dire di loro». Il viaggio per lasciare la comunità ultraortodossa è stato molto difficile, dunque, anche a causa delle origini russe e della mentalità famigliare, secondo Esterina.

«Da bambina sognavo una formazione adeguata e una moto, come se fossero la libertà. Oggi sono alla mia settima moto e se penso a quello che sto vivendo, non era neppure immaginabile per me». I rapporti familiari rimangono tesi e solo in questo tempo di Covid-19 uno dei fratelli l’ha contattata per farsi spiegare come funzionasse il contagio. «Per adesso in famiglia voglio rimanere “al margine della foto”, mi va bene così».

«Anche noi siamo israeliani»

Elhanan Knopf, 26 anni, riesce, invece, ancora ad avere buoni rapporti con i genitori, nonostante le difficoltà. «I miei, dopo la delusione, stanno cercando di capire piano piano il mio percorso». Elhanan ha lasciato tre anni fa la sua vita da ultraortodosso Yeshivish (o anche Litvish, comunità che enfatizza gli aspetti intellettuali della vita ebraica e lo studio della Torah per gli uomini). «Io sono il nono di undici figli e ho un gemello – racconta –. Dall’età di diciannove anni io e il mio gemello siamo andati a vivere in una yeshiva (scuola ebraica per lo studio del Talmud e della Torah). Quando frequenti questo tipo di scuola, il tuo percorso è molto chiaro e non devi pensare a cosa farai». Elhanan e suo fratello dalle otto di mattina a mezzanotte studiavano la Torah, senza avere spazio per qualsiasi altra attività. Fino al giorno in cui hanno deciso che era arrivato il momento di conoscere tutto quello che nelle scuole religiose non insegnavano e intraprendere il percorso di preparazione per sostenere l’esame di maturità. «Così abbiamo parlato con i nostri genitori e loro erano d’accordo, a patto che fossimo rimasti ultraortodossi – spiega Elhanan –. Dovevamo imparare in dieci mesi le cose che si imparano in dodici anni di scuola. Nel frattempo, il capo della yeshiva ci disse che non avremmo potuto più vivere lì». È stato quello il punto di rottura per i due gemelli.

«Quando ho capito che erano così tante le cose da imparare, è stato molto frustrante ed ero arrabbiato verso la mia famiglia, i miei genitori, la società da cui provenivo. È stato uno choc – confida Elhanan -. La Torah è un giogo pesante sulle tue spalle da quando ti svegli a quando vai a dormire. Devi sapere sempre cosa fare. Ma era troppo pesante sulle mie spalle e così ho deciso di liberarmi».

Una volta finiti gli esami Elhanan ha voluto arruolarsi nell’esercito: «Volevo farlo per dimostrare di sentirmi parte della società israeliana, che quando sei ultraortodosso è come se ti dicesse continuamente: “Non sei parte di noi”. Molti credono che la vita di un ultraortodosso debba rimanere soltanto nella yeshiva e non essere connessa in alcun modo con quella degli altri. Ma anche noi siamo cittadini israeliani e vogliamo sentire di appartenere a questa comunità». Nonostante la delusione per esser stato messo a servire in cucina per due anni, anche quel periodo è stato importante: «Dopo pochi mesi che ero stato reclutato, ho deciso di togliere la kippah, essere me stesso e provare a capire cosa volessi fare della mia vita. È stato un lento processo che mi ha portato a trasformare me stesso». Indossa una maglietta a righe oggi, Elhanan, e vive con il suo gemello in un appartamento. Ha lavorato nel settore dell’idroterapia e fa diversi lavori per mantenersi.

«Dopo l’esercito, volevo iscrivermi all’università, ma non avevo ancora passato l’esame di matematica. Per questo mi sono rivolto ad Out for Change, dove ho trovato un volontario che mi ha dato lezioni private». Elhanan avrebbe voluto studiare farmacia come sua madre, ma i suoi voti non sono sufficienti per iscriversi a quel corso di studi. Il prossimo passo sarà affrontare dunque un test universitario per capire in quale facoltà potrà studiare. «Mi sento come se stessi provando ad abbattere un muro dopo l’altro. Quando penso che mi basti vincere soltanto un’altra sfida, me ne trovo davanti un’altra e un’altra ancora – afferma Elhanan –. Ma passo dopo passo ci sto riuscendo».


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