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La Siria e i suoi profughi, 9 anni di emorragia

Anna Clementi
19 marzo 2020
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La Siria e i suoi profughi, 9 anni di emorragia
Primi di marzo 2020, profughi ammassati al confine tra Turchia e Grecia a Pazarkule.

Nel decimo anno di una guerra che ha provocato oltre 11 milioni di sfollati e rifugiati, sono ancora migliaia le persone in fuga verso l'Europa. E ora a fermare il loro cammino è la Grecia, con il plauso dell'Ue.


«Detenuti, picchiati, spogliati e deportati in maniera sommaria», questo è il trattamento riservato alle persone che hanno tentano di attraversare il confine tra la Turchia e la Grecia ai primi di marzo. A denunciare lo spropositato uso della violenza da parte delle forze dell’ordine greche e i respingimenti collettivi contro i richiedenti asilo che cercano protezione in territorio ellenico è l’ong Human Rights Watch (Hrw) in un dettagliato articolo pubblicato martedì 17 marzo.

«[I poliziotti greci] hanno tentato di perquisire mia moglie e le hanno toccato il seno», racconta a Hrw un uomo siriano che viaggia con moglie e figli. «Hanno poi cercato di toglierle il velo e i pantaloni. Quando ho provato a fermarli, mi hanno preso a calci e a pugni picchiandomi violentemente con bastoni e spranghe. Anche mia figlia di due anni è stata colpita, ha ancora un livido in testa».

È il 28 febbraio quando la Turchia, dopo l’uccisione, da parte dell’esercito siriano, di 33 soldati turchi nella provincia di Idlib, annuncia che non fermerà più i profughi diretti in Europa, ammassandone migliaia al confine terrestre del fiume Evros. Nel giro di poche ore, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur/Unhcr) ne conta oltre 13 mila, siriani, ma anche tanti afghani, pronti a entrare in Grecia. In contemporanea aumenta anche il numero di sbarchi nelle isole greche già al collasso: in soli due giorni (1-2 marzo) a Samos, Lesbo e Chios arrivano 1.200 persone. Nei giorni successivi i numeri al confine di terra crescono ancora. La dura reazione della Grecia – sospensione del diritto d’asilo per un mese, deportazioni sommarie verso la Turchia, detenzione per chi entra illegalmente nel Paese e dispiegamento di nuove pattuglie al confine terrestre – viene avallata dall’Unione Europea che definisce la Grecia lo «scudo d’Europa» e vara lo stanziamento di 700 milioni di euro per far fronte all’afflusso dei profughi e lo schieramento di 100 nuove guardie di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, al confine di Evros.

Braccio di ferro al confine

Di fronte alla risposta di Atene e con la negoziazione di una nuova, seppur fragilissima, tregua con la Russia a Idlib, la Turchia alleggerisce la pressione al confine greco. Anche se migliaia di persone continuano a rimanere intrappolate nella terra di nessuno alla frontiera di Pazarkule con quotidiani tentativi di penetrare in territorio greco, la autorità turche iniziano a bloccare chi si avvicina al confine e a caricare le persone sugli autobus per riportarle a Istanbul. A quattro anni dall’intesa con l’Unione Europea, la Turchia, ben consapevole di avere il coltello dalla parte del manico, spera di negoziare un nuovo accordo in previsione del vertice europeo di Bruxelles del 26 marzo. Tuttavia nella video-conferenza tenutasi martedì 17 marzo tra Recep Tayyip Erdogan e i leader di Francia, Germania e Gran Bretagna che avrebbe dovuto spianare la strada per l’incontro della prossima settimana, la Turchia non ha ottenuto i risultati sperati.

In questo gioco delle parti, a pagare il prezzo più alto è chi fugge dalla guerra. A nove anni dal 15 marzo 2011, che ha segnato l’inizio di un sanguinoso conflitto, dalla Siria si continua a scappare: secondo l’Acnur ormai 11 milioni, oltre la metà della popolazione siriana, sono gli sfollati interni o profughi all’estero. Ed è una ferita che sanguina ancora: dal primo dicembre 2019 ad oggi, l’offensiva di Damasco contro la città di Idlib, l’ultima roccaforte dell’opposizione, sostenuta dalla Turchia, ha provocato un milione di sfollati.

I profughi, per la maggior parte donne e bambini, si trovano a vivere in situazioni drammatiche, ammassati lungo il confine turco-siriano, che non è mai stato riaperto, in tende, edifici bombardati e fabbriche abbandonate.

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