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Un 2019 fecondo per la narrativa araba

Laura Silvia Battaglia
31 dicembre 2019
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Le ultime ore dell'anno inducono tutti, più o meno fugacemente, a guardarsi indietro e tirare le somme. Per la letteratura araba il 2019 è stato un anno positivo. C'è chi ha stilato un elenco di titoli imperdibili. Lo rilanciamo.


Il 2019 è stato un anno ricco per la produzione di narrativa (ma anche di saggistica) in lingua araba tradotta poi in varie lingue europee, a partire dall’inglese. Ne rendono conto, allo scoccare del 2020, due media online molto seguiti: Al Araby al Jadeed e Middle East Eye. Leggendo la scelta degli esperti di letteratura dei due giornali, vale la pena di scorrere un po’ di titoli, accessibili anche ai lettori italiani grazie ai maggiori siti di commercio online.

  • The Parisian («Il parigino»), di Isabella Hammad
    Ambientato in Francia e in Palestina durante e dopo la Prima guerra mondiale, questo è il romanzo d’esordio magistrale della vincitrice del premio Plimpton Isabella Hammad. La storia è incentrata su Midhat Kamal – detto anche al-Barisi, «il parigino» – che tenta di orientarsi tra le aspettative culturali nel nuovo Paese di residenza e la propria appartenenza alle origini palestinesi, in un’era turbolenta e politicamente esplosiva.
  • Bird summons, di Leila Aboulela
    «Il richiamo degli uccelli» (per dirlo all’italiana) è la storia di tre donne arabe – Salma, Moni e Iman – amiche e socie attive di un gruppo di donne musulmane. Le tre intraprendono insieme un viaggio nelle Highlands scozzesi. Questa esperienza alla ricerca della libertà sarà una sfida, mentre le tre scopriranno se stesse, cercando di barcamenarsi tra le opposte esigenze della famiglia, dei doveri sociali quotidiani e della fede.
  • The Other Americans, di Laila Lalami
    È il potente quarto romanzo della finalista del Premio Pulitzer Laila Lalami. La storia è narrata da nove diversi personaggi riuniti dalla sospetta morte di Driss Guerraoui, un immigrato marocchino in una piccola città californiana, e scopre le contraddizioni e la precarietà della cultura americana.
  • When all else fails, di Rayyan al-Shawaf
    «Quando tutto il resto fallisce» è una commedia oscura incentrata su Hunayn, un cristiano iracheno istruito a Roma e poi a Beirut, che vive in Florida al momento degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Dopo quegli eventi abbandonerà la sua vita precedente. Ambientato nei giorni delle conseguenze tumultuose dell’attacco alle Torri Gemelle, il romanzo di debutto di al-Shawaf affronta i temi relativi alle identità religiose, culturali e nazionali e gli stereotipi che ne derivano.
  • A Woman Is No Man, di Etaf Rum
    Una storia straziante di tre generazioni di donne palestinesi-americane – Isra, Deya e Fareeda – che cercano di fare sentire la loro voce. Il debutto di Etaf Rum affronta i temi della violenza domestica e del patriarcato, spesso considerati argomenti tabù nella cultura araba palestinese (e non solo).
  • Bunny, di Mona Awad
    L’autrice è la dimostrazione che gli autori arabi non dovrebbero essere sempre obbligati a scrivere delle loro esperienze culturali. Così, «Il coniglietto» (Bunny) è sia una commedia oscura che un romanzo horror che si evolve attorno alla borsista Samantha e a una cricca di ragazze abbienti che si fanno chiamare «le conigliette». Bunny è la parodia di alcuni programmi culturali di belle arti nelle università d’élite, e mette in evidenza il cameratismo tra studenti, gli atteggiamenti di questa élite ma anche l’auto-referenzialità delle istituzioni culturali con un linguaggio surreale, allucinato e grottesco.
  • Palestine + 100, a cura di Basma Ghalayni
    Si dice che i palestinesi scrivano spesso sul loro passato o sul loro presente ma mai sul loro futuro. Così questa raccolta di racconti di fantascienza di 12 scrittori palestinesi è la prima nel suo genere. Con i contributi di Saleem Haddad, Ahmed Masoud, Selma Dabbagh e altri, le storie di Palestine + 100 si basano sull’ipotetica condizione della Palestina nel 2048, un secolo dopo la nascita dello Stato di Israele e il trauma della Nakba.
  • The House of Youssef, di Yumna Kassab
    Una raccolta di racconti che sceglie come ambientazione la vita dei migranti libanesi nella periferia occidentale di Sydney. Yumna Kassab esplora i temi dell’isolamento, della famiglia e della comunità, oltre che della nostalgia per il luogo d’origine. House of Youssef è stato recentemente selezionato per il Victorian Premier’s Literary Award 2020, che dà la possibilità alla Kassab di concorrere per il premio letterario più ambito in Australia.
  • The Pact We Made, di Layla Al Ammar
    Il romanzo di debutto di Layla Al Ammar racconta la storia di Dahlia, che si trova a un bivio nella sua vita, il giorno del suo trentesimo compleanno, ossia l’età in cui una donna kuwaitiana di buona famiglia ha già alle spalle i suoi primi anni di matrimonio. Con Dahlia a cavallo tra due mondi, The Pact We Made offre uno scorcio della vita di una donna contemporanea e del suo ruolo nella cultura araba.
  • Morire è un mestiere difficile, di Khaled Kalifa (Bompiani, 2019)
    La sofferenza e il massacro del popolo siriano sono diventati un aspetto così spudoratamente drammatico della copertura mediatica del Medio Oriente negli ultimi otto anni che è lecito chiedersi se i giornalisti possano ancora contribuire al suo racconto, oltre alla cronaca secca del bilancio delle vite spezzate. Il successo del romanziere Khaled Khalifa in Morire è un mestiere difficile è quello di utilizzare come soggetto i pericoli quotidiani e la stanchezza di tanti anni di guerra e presentarli in modo convincente e urgente, anche se la storia diventa più cupa, pagina dopo pagina. La narrazione segue il viaggio di un uomo, insieme ai suoi fratelli, che gli sono fondamentalmente estranei, da Damasco al Nord della Siria, controllata dai ribelli, per seppellire il cadavere in decomposizione del loro padre idealista, una metafora molto adatta a descrivere il corpo politico siriano. I capitoli descrivono i loro incontri con soldati annoiati, a volte insensibili, a volte compassionevoli, ai posti di blocco, nonché con branchi di cani randagi in villaggi abbandonati, distrutti dai bombardamenti e dagli attacchi aerei. Questo romanzo è così vero che a tratti sembra un racconto della realtà, piuttosto che una finzione.
  • Celestial Bodies, di Jokha al-Harthi
    È stato definito uno dei migliori romanzi in lingua araba pubblicato negli ultimi anni. «Corpi celesti» di Jokha al-Harthi (tradotto in inglese da Marilyn Booth per Sandstone Press), ha vinto quest’anno il premio internazionale Man Booker. È una storia familiare intergenerazionale ambientata in Oman, e tratta gli affascinanti temi della moda, dell’amore, ma anche l’abuso, la schiavitù, la follia.

 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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