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Si scrive kafala, si legge schiavitù

Enrico Casale
30 maggio 2019
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Si scrive <em>kafala</em>, si legge schiavitù
Beirut, 5 maggio 2019: protesta di immigrati in Libano che chiedono l'abolizione della kafala e il riconoscimento dei diritti dei lavoratori domestici.

Per migliaia di africani e asiatici immigrati lo sfruttamento lavorativo è realtà quotidiana nei Paesi del Golfo, in Libano e Giordania. Il loro sogno di una vita migliore svanisce di fronte alla kafala, un istituto giuridico che, nel tempo, si è trasformato in uno strumento di oppressione.


La kafala nasce negli anni Cinquanta del secolo scorso. In quel periodo, nella Penisola araba (Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar), ma anche in Libano e in Giordania, si registra un boom economico legato allo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi. In tutti i Paesi sale la necessità di manodopera a basso costo, ma che possa essere facilmente espulsa in caso di recessione. Viene così introdotto un sistema di «affidamento».

Il funzionamento è semplice: i migranti che vogliono cercare lavoro nella Penisola araba, in Libano e in Giordania, entrano in contatto con agenzie della nazione dove emigreranno. Queste ultime procurano uno sponsor (kafeel) che permette loro di entrare nel Paese ospitante. Normalmente lo sponsor è il datore di lavoro che anticipa le spese per il permesso di lavoro ed è responsabile del visto. Per gli immigrati inizia così lo sfruttamento. I lavoratori, i cui documenti sono trattenuti dai datori di lavoro, non possono cambiare impiego o rientrare nei propri Paesi quando vogliono. Sono segregati. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) nelle pieghe della kafala si nascondono lavoro forzato, violenze sessuali, gravidanze indesiderate, abusi, percosse, sfruttamento. Chi tenta di fuggire e viene catturato, invece di ricevere sostegno, viene arrestato e incriminato per «immigrazione illegale». Non solo, ma nella maggior parte dei Paesi che applicano questo sistema, i lavoratori migranti non sono tutelati dalle norme del diritto del lavoro del Paese. Non godono neanche dei diritti sindacali. I livelli salariali, quindi, sono bassi, in alcuni casi meno di 200 dollari al mese.

La kafala viene utilizzata soprattutto nei settori dell’edilizia e dei servizi domestici. Occupazioni che implicano bassa professionalità, i lavoratori sono quindi costantemente minacciati dai datori di lavoro di «essere sostituiti da qualche altro in qualsiasi momento». Questa minaccia è disumanizzante e crea un ulteriore stato di subordinazione nei confronti degli imprenditori.
Neanche i Paesi di origine dei migranti si ribellano a questo sistema. Le rimesse inviate, anche se basse, sono balsamo per i disastrati bilanci dei Paesi africani e di alcuni asiatici (Bangladesh, Cambogia, Filippine, Pakistan). Secondo la Confederazione sindacale internazionale (Ituc), sono oltre due milioni i migranti interessati dal fenomeno in tutto il Medio Oriente.

Una nuova sensibilità

Alcuni casi di sfruttamento estremo sono però venuti alla luce, catturando l’attenzione delle organizzazioni e dei sindacati internazionali. Nel 2018, si è scoperto che negli Emirati Arabi Uniti la kafala era applicata ai muratori che stavano costruendo il campus della New York University ad Abu Dhabi. I lavoratori ricevevano salari bassi e vivevano in alloggi pessimi. Quando hanno cercato di scioperare per chiedere migliori condizioni di vita, sono stati licenziati. In Kuwait, l’omicidio di una domestica filippina ha invece dato vita a una crisi diplomatica tra Manila e Kuwait City. Queste e altre notizie simili, trapelate sui media di tutto il mondo, hanno acceso un faro sul fenomeno e sollevato proteste in varie parti del mondo. L’ondata di scandalo ha portato a qualche (piccola) riforma. Negli Emirati Arabi Uniti è entrata in vigore una legge che garantisce, almeno sulla carta, ferie pagate e un giorno di riposo settimanale. Il Qatar, in vista dei prossimi campionati mondiali di calcio nel 2022, ha varato una serie di norme che riconoscono i diritti dei migranti sulla residenza permanente.

Il caso del Libano

Il Libano è particolarmente toccato della kafala. Si stima che 250 mila immigrati, provenienti da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine lavorino sotto questo regime. Nel Paese dei cedri, alcune donne riescono però a fuggire e trovano rifugio nei centri di accoglienza per lavoratrici migranti allestiti dalla Caritas. Negli shelter  Olive, Pine e Laksetha è attivo un progetto portato avanti da Celim, Comunità volontari per il mondo, Centro studi politica internazionale, Università Cattolica del Sacro Cuore, Comune di Milano e dalla Federazione internazionale dei lavoratori domestici (Idwf).

Gli operatori lavorano per restituire un’esistenza dignitosa alle donne fuggite dai loro carnefici. Viene offerta protezione sotto anonimato. Sono distribuiti pasti caldi e offerta assistenza medica, psicologica e legale. Nei centri molte donne ritrovano un po’ di speranza. Insieme alla prima accoglienza e all’assistenza, il progetto prevede un percorso di rimpatrio volontario e di reinserimento nei Paesi di origine. Nei prossimi tre anni saranno assistite oltre 1.500 donne nei luoghi di ricovero di Beirut e 30 mila nella prigione di Adlieh. Parallelamente, in Etiopia si stanno organizzando corsi di formazione professionale, per far conoscere ai migranti i diritti di base.

L’obiettivo di fondo rimane la riforma radicale del sistema. Secondo l’ong Human Rights Watch, «la kafala deve essere abrogata. I Paesi del Medio Oriente dovrebbe riconoscere il ruolo cruciale dei lavoratori migranti nelle loro economie e adottare misure perché i loro diritti vengano pienamente garantiti».

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