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Nasrallah e il compito del poeta

Chiara Cruciati
19 marzo 2019
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Nasrallah e il compito del poeta
Il poeta palestinese Ibrahim Nasrallah.

A tu per tu con Ibrahim Nasrallah, scrittore palestinese che negli anni ha arricchito la poetica e la letteratura araba con una produzione corposa e profonda: 19 romanzi e 17 raccolte di poesie.


La libreria Griot, a Roma, si riempie velocemente. Sta per arrivare Ibrahim Nasrallah, uno dei più noti e amati autori palestinesi. Nato in un campo profughi in Giordania nel 1954, poeta e scrittore dell’esilio palestinese, ha arricchito la poetica e la letteratura araba con una produzione corposa e profonda, 19 romanzi e 17 raccolte di poesie.

Nasrallah è qui per presentare un diwan, una raccolta di poesie scritta 18 anni fa e tradotta in italiano dal professor Wasim Dahmash per le Edizioni Q. L’autore ha scritto Specchi degli angeli nel 2001, a un anno dall’inizio della Seconda intifada. Si tratta del dialogo, in forma di poesia, tra Iman Hajjo e il suo angelo custode: la piccola Iman, a soli quattro mesi, fu uccisa nella culla da un bombardamento israeliano a Gaza.

«Per me è stata un’opera difficilissima. Dopo averla terminata non sono più riuscito a scrivere poesia per cinque anni», dice al pubblico Nasrallah prima di alzarsi in piedi e leggere ad alta voce i versi. A margine dell’incontro lo abbiamo intervistato.

Come può la poesia raccontare un evento umanamente assurdo, come l’uccisione di una neonata?
È molto difficile, era così piccola. Ed era bellissima. Nella foto che ho visto dava l’idea di resistere alla morte con la sua bellezza. Un’elegia è una poesia, ma continuo a pensare che un martire sia più grande di un verso perché è un mondo che viene a mancare all’improvviso. Iman ha perso tutta la vita che poteva vivere e noi abbiamo perso ciò che sarebbe diventata. Per poterne scriverne è necessario avere la capacità di raccontare un personaggio reale: in questo mi ha molto aiutato il fatto di essere anche un romanziere.

Lei è entrambe le cose: poeta e scrittore. Ci sono temi trattabili solo dalla letteratura e temi investigabili solo dalla poesia?
Molti temi sono comuni a poesia e narrativa. Nel mio caso ho raccontato la vita di mia madre in una raccolta di poesie Nel nome della madre e del figlio e anche in un romanzo, Gli uccelli della cautela. Quando si racconta una storia si deve costruire una struttura narrativa complessa, per questo anche opere poetiche includono elementi tipici della narrativa. Parlo delle epopee, in particolare.

Lo scorso anno lei ha vinto il premio internazionale per la letteratura araba con il romanzo La seconda guerra del cane: un futuro distopico ambientato in una città senza nome in cui il protagonista Rashid, come la società intorno, rappresenta un distruttivo annichilimento morale. Chi è Rashid?
L’unica cosa di cui uno scrittore non può parlare è del simbolismo dei suoi personaggi: è come dire al lettore come deve concepirli. Il lavoro creativo è un lavoro democratico: ogni lettore può scoprire aspetti che un altro lettore non vede. Però in generale questo romanzo è nato per osservare l’inselvatichimento della nostra società e del mondo moderno. È un modo per dire: andremo a finire così.

A tal proposito lei ha definito il romanzo «un avvertimento». Ma è davvero un futuro distopico? O è più reale di quanto si pensi?
Non è un romanzo di fantascienza, ma di fantasia sociale. Quando si descrive il futuro, lo si deve fare immaginando strumenti oggi inesistenti ma ai quali si suppone che l’umanità arriverà. Il romanzo non tratta di un futuro lontano, ma di un futuro molto vicino.

La poesia e la letteratura sono universali o sono intrinsecamente legati alla vita di ognuno? Nel suo caso quanto l’essere un rifugiato palestinese ha inciso sul suo lavoro?
La poesia è figlia della sensibilità del tempo e del luogo. La poesia palestinese è sempre stata parte della scena artistica nazionale. Poeti che sono partiti verso luoghi lontani hanno scritto in modo diverso da chi è rimasto: dopo il 1948, quando la poesia è divenuta strumento di sfida all’occupazione israeliana, i poeti nella diaspora producevano opere molto più nostalgiche e di rimpianto di chi era rimasto.

Tempo fa un musicista di Betlemme ci parlava della necessità di liberare la musica dall’occupazione: voleva sentirsi libero di fare musica senza dover per forza scrivere testi politici, convinto che la musica tradizionale palestinese fosse già un atto di resistenza e di custodia dell’identità.
Credo che il primo compito del musicista sia fare buona musica, del poeta fare buona poesia e dello scrittore fare buona narrativa. Tutti abbiamo opere che riguardano la patria, ma anche opere che trattano dell’amore, degli alberi, degli esseri viventi. Ciò che serve la causa palestinese è l’esistenza di opere di alto livello, perché è così che la Palestina si fa amare di più.

Cosa pensa dell’attuale scena narrativa palestinese e araba? Stanno emergendo molti autori giovani.
Ci sono nuovi autori, sia in poesia che in letteratura. Non si può esprimere un giudizio su una generazione se non dopo molti anni. Ma va detto che, a differenza degli anni Novanta quando mancarono nomi interessanti, oggi emergono lavori ottimi. Autori giovani che stanno creando personaggi con una forte individualità. Sono segni importanti del cammino che la letteratura palestinese e quella araba stanno compiendo verso un vero e proprio movimento letterario.

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