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Sui minori palestinesi continui soprusi dalle forze di sicurezza

Chiara Cruciati
26 novembre 2018
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Sui minori palestinesi continui soprusi dalle forze di sicurezza
In questo fermo immagine da un video di B'Tselem soldati israeliani arrestano un minore palestinese nei pressi di Hebron nell'ottobre 2017.

I minori palestinesi, quando finiscono negli ingranaggi degli apparati di sicurezza israeliani o palestinesi, sono spesso sottoposti ad abusi o procedure illegali. Lo denuncia Defence for Children International.


Negli ultimi mesi il caso di Ahed Tamimi, giovane palestinese di Nabi Saleh, ha acceso i riflettori su una realtà radicata: la detenzione politica di minorenni sotto occupazione militare. È stata la stessa Ahed, una volta libera, a ricordarlo: non sono l’unica, non sono l’ultima. Ad occuparsene da quasi trent’anni è la sezione Palestina di Defence for Children International (Dci-Ps), fondata all’inizio degli anni Novanta da Rifat Kassis, leader della Prima intifada a Beit Sahour ed ex prigioniero politico in un carcere israeliano: dopo il rilascio, nel 1991, decise di dedicarsi alla tutela dei bambini detenuti.

Da allora l’associazione è cresciuta e al sostegno legale ha affiancato l‘attività di monitoraggio delle violazioni israeliane in carcere e fuori: omicidi, ferimenti, effetti del sistema dei checkpoint e della demolizione di case sull’infanzia palestinese. Dci-Ps monitora anche gli abusi commessi da organi dell’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania e di Hamas a Gaza e offre sostegno legale ai loro prigionieri.

Dal 1967 ad oggi sono un milione i palestinesi passati per un centro di detenzione israeliano. Al momento i detenuti sono 5.640, di cui 270 minorenni e 53 donne. In Palestina non c’è famiglia che non abbia avuto un membro dietro le sbarre. Tante storie, tutte simili, ma diverse nelle conseguenze. Soprattutto se si tratta di bambini: «C’è chi dopo la prigionia lascia la scuola, c’è chi teme di essere di nuovo arrestato e non esce quasi più di casa, c’è chi diventa più forte e si impone un obiettivo, riprende a studiare e si laurea», ci spiega Ruba Awadallah, ricercatrice del Dci-Ps.

Uno di questi è H. A., arrestato a 16 anni, portato via alle 2 di notte dalla sua casa nel campo profughi di Aida a Betlemme con l’accusa di aver lanciato pietre: dopo due anni di carcere, ha lasciato gli studi e ora sogna di trasferirsi all’estero. Opposta la reazione di B. S., residente nel sud di Hebron, detenuto per una protesta a difesa di case minacciate dalla demolizione: «Mi sono laureato in giurisprudenza, non voglio andarmene da qui perché è la mia terra», dice.

Il trauma peggiore – aggiunge Ruba Awadallah – si produce al momento dell’arresto e nei giorni immediatamente successivi, quelli dell’interrogatorio e delle udienze di fronte a una corte militare: «In Israele vigono due sistemi legali, civile per i cittadini israeliani, compresi i coloni (sparpagliati in Cisgiordania – ndr), e militare per i palestinesi dei Territori Occupati. Questo secondo sistema si applica anche ai bambini: ogni anno contiamo tra i 500 e i 700 minori detenuti e processati da un tribunale militare».

«Nel 50 per cento dei casi l’arresto avviene di notte. I ricercati vengono svegliati da 6-7 soldati armati. Il trauma è significativo: i ragazzi pensano di essere al sicuro, a casa, protetti dai genitori, ma non è così: in genere i soldati chiudono il resto della famiglia in una stanza e il bambino, quando viene svegliato, è solo. Se i genitori sono presenti, non sono comunque in grado di proteggerlo e ciò danneggia seriamente la relazione tra genitori e figli, che spesso perdono fiducia nel padre e nella madre».

I minori vengono ammanettati, bendati e portati in un centro militare per l’interrogatorio. Secondo la legge militare hanno diritto a parlare con un legale ma, dicono i monitoraggi del Dci, ciò avviene raramente. E quando avviene, è solo un’assistenza telefonica: «Il bambino non sa di chi si tratti, non si fida e spesso non dice nulla, mentre l’avvocato, che sa di essere ascoltato, si limita a consigli molto generici». È in questa fase che i bambini subiscono i maggiori abusi: aggressioni verbali e fisiche, intimidazioni, minacce alla famiglia che spesso li spingono a confessare anche reati non commessi.

«Chi non confessa – continua Ruba – subisce ulteriori pressioni. Ogni anno registriamo casi di bambini posti in isolamento: 11 casi quest’anno, 26 nel 2017. Nel 2018 la durata media dei provvedimenti di isolamento è stata di 15 giorni, con picchi di 26. Un’esperienza terribile anche per un adulto e che produce i suoi effetti soprattutto nel lungo termine».

In genere, spiega Dci-Ps, i bambini vengono condannati a pene dai 3 ai 12 mesi di reclusione, ma non sono rare sentenze molto più pesanti. Nel 70 per cento dei casi, il reato imputato è il lancio di pietre, seguito da manifestazioni non autorizzate, insulto all’onore dei soldati o tentato accoltellamento. Il tasso di condanne è altissimo, oltre il 99 per cento, una realtà che convince bambini e avvocati a patteggiare per abbreviare una pena carceraria pressoché certa.

«Non importa che il bambino o ragazzo sia innocente o colpevole: secondo la legge israeliana, va comunque tutelato – conclude Ruba –. Una tutela che ai giovanissimi israeliani è riconosciuta dai tribunali minorili e dai programmi di educazione. Per i palestinesi tutto ciò non esiste: entrano in un sistema di controllo totale, in cui l’obiettivo non è la pena, ma l’esercizio di potere sul minore che avrà effetti duraturi e pericolosi. Il nostro compito è proteggere il bambino, sempre». Anche quando le violazioni avvengono da parte palestinese.

A fornire gli ultimi dati è lo stesso Dci-Ps, in un rapporto di metà novembre: nei primi sei mesi del 2018 almeno 22 minori sono stati detenuti dalle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) in violazione delle sue stesse leggi. La normativa entrata in vigore nel febbraio 2016 impone che sia la polizia minorile a occuparsi dei casi riguardanti i bambini. Eppure, degli 82 minorenni arrestati dalla polizia palestinese nella prima metà dell’anno, almeno 22 sono stati ammanettati da polizia criminale o servizi di sicurezza: «La legge ha dato vita a tribunali per i minori e unità di polizia specializzate – puntualizza Dci –. A guidare i principi della normativa è il miglior interesse del bambino: la deprivazione della sua libertà va utilizzata come ultima risorsa».

Spesso accade che i bambini siano trasferiti in carceri con adulti (19 casi documentati) e non in prigioni minorili (altra violazione) e che siano soggetti a maltrattamenti e torture: il Dci denuncia violenza fisica, soprattutto in fase di interrogatorio, su almeno 23 minori. Pratiche molto simili a quelle israeliane.

 

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