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Accordi di Oslo, cosa resta di un sogno

Chiara Cruciati
20 settembre 2018
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Accordi di Oslo, cosa resta di un sogno
Da sinistra, l'israeliano Yitzhak Rabin, il presidente Usa Bill Clinton e il palestinese Yasser Arafat.

La nuova politica statunitense sul Medio Oriente contribuisce al definitivo tramonto degli Accordi firmati giusto 25 anni fa alla Casa Bianca tra israeliani e palestinesi.


Il 13 settembre 1993, sotto il primo sole autunnale di Washington, Bill Clinton sorrideva di fronte alla storica stretta di mano tra il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, e il primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin.

Entravano in vigore gli Accordi di Oslo, primo trattato di pace tra israeliani e palestinesi. Venticinque anni dopo dell’entusiasmo che si respirava nei Territori palestinesi occupati non resta quasi nulla. Le speranze di veder nascere uno Stato di Palestina sono evaporate. Al loro posto la realtà, durissima: l’assedio di Gaza sempre più brutale, la continua espansione coloniale in Cisgiordania, Gerusalemme che da capitale condivisa è divenuta un miraggio. E l’unità palestinese, anelata fuori e dentro i confini della Palestina storica, è utopia: i due principali partiti, Hamas e Fatah, rispettivamente al governo a Gaza e in Cisgiordania, continuano a siglare accordi di riconciliazione solo sulla carta.

A sentire i palestinesi, divisi in enclave ormai irraggiungibili – a differenza del 1993 quando non esistevano ancora muri né check-point israeliani – questo è uno dei peggiori periodi della loro storia recente. Alle politiche di Israele, sempre più dure in termini di repressione delle manifestazioni pacifiche, di confisca delle terre, di demolizioni di case e villaggi, fa da contraltare l’assenza di una comunità internazionale interessata a una pace giusta. Gli Stati Uniti restano il solo mediatore, un «broker disonesto» come lo definì Aruri Naseer in un libro del 2006: mai come oggi la politica mediorientale della Casa Bianca ha abbracciato la narrativa israeliana.

Le misure assunte negli ultimi mesi dall’amministrazione Trump vanno verso una precisa direzione: la negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. La decisione più significativa dal punto di vista politico è stata presa il 6 dicembre scorso: Donald Trump, disconoscendo decenni di politica estera Usa e di risoluzioni Onu, ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Decisione a cui è seguito il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv alla Città Santa, il 14 maggio, settantesimo anniversario della fondazione di Israele e allo stesso tempo della Nakba, la catastrofe, del popolo palestinese.

L’ultima mossa è dei primi di settembre: la chiusura della sede dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) a Washington, aperta proprio a seguito degli Accordi di Oslo. Porta serrata, diplomatici cacciati: l’immagine plastica della rottura dei rapporti con la leadership palestinese e della fine di quel processo di pace che, seppur fittizio, aveva tenuto in piedi le pratiche diplomatiche degli ultimi tre decenni. In mezzo, tra Gerusalemme «capitale» e la cacciata dell’Olp, la Casa Bianca ha tagliato i fondi all’Unrwa, l’agenzia Onu che dai primi anni Cinquanta si occupa dei profughi palestinesi (365 milioni di dollari); messo in dubbio l’esistenza stessa dei rifugiati palestinesi; sospesi gli aiuti finanziari all’Autorità nazionale palestinese, il governo di Ramallah (200 milioni di dollari); tagliati i programmi di sostegno agli ospedali palestinesi di Gerusalemme est (25 milioni di dollari); paventato sanzioni contro giudici e procuratori della Corte penale internazionale dell’Aja, «colpevole» di aver accettato le denunce palestinesi per le violazioni israeliane del diritto internazionale. Un filo rosso lega tali decisioni: la demolizione, pezzo per pezzo, dell’agenda palestinese e la delegittimazione delle organizzazioni cuore del diritto internazionale, dall’Onu all’Aja.

Al doppio attacco israeliano e statunitense il solo a reagire è il popolo palestinese. Privo di una leadership credibile e unita, dal 6 dicembre 2017 protesta seppur inascoltato. Da mesi Gaza ogni venerdì è teatro della Marcia del Ritorno, scomparsa dalle cronache dopo la strage di manifestanti del 14 maggio (quasi 70 gli uccisi dai cecchini israeliani), mentre in Cisgiordania a farla da padrone da mesi è la resistenza non violenta del villaggio beduino di Khan al Ahmar, minacciato di demolizione da Israele.

Ma a prevalere è la stanchezza: le leadership palestinesi non sono in grado di dare risposte, arroccate nelle loro enclave di governo fittizio, e reprimono le voci critiche interne e la stampa. Fuori da confini sempre più serrati, accanto al popolo palestinese restano in pochi: le sole voci di solidarietà arrivano dai movimenti di base. A partire dalla campagna di boicottaggio, Bds, che segna vittorie importanti nella speranza di replicare un giorno la sconfitta del regime sudafricano basato sull’apartheid.

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