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Missione Pontificia, a servizio di tutti per rimuovere le barriere

Beatrice Guarrera
24 maggio 2018
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A 70 anni dalla sua creazione, l’organizzazione del Papa a sostegno delle popolazioni palestinesi è più che mai attiva e nelle opere dialoga con le altre religioni. Ne parliamo con il direttore, Joseph Hazboun.


Iniziò tutto nel 1949. La storia della Missione Pontificia in Palestina parte da lì: da quei tragici momenti che seguirono la fondazione dello Stato d’Israele, in cui migliaia di palestinesi vennero cacciati dalle proprie case e diventarono profughi. Tra di loro anche molti cristiani. «All’epoca la Santa Sede fu tra le prime istituzioni che rispose alla tragedia». Lo racconta Joseph Hazboun, da settembre 2017 direttore della Cnewa – Pontifical Mission Palestine (Pmp). Perché due nomi? «A quel tempo esisteva già la Cnewa (acronimo inglese dell’Associazione Cattolica per il Welfare nel Vicino Oriente), fondata nel 1926, a cui il Papa affidò il compito organizzativo per la missione pontificia a sostegno della popolazione. Doveva essere una missione temporanea – continua Joseph Hazboun –, ma sfortunatamente dopo 70 anni siamo ancora qui, dato che continua il conflitto tra israeliani e palestinesi». L’organizzazione è quindi una sola (anche se ha due nomi in questa area geografica), opera per Israele e Palestina e ha una sede nella città vecchia di Gerusalemme. Il quartier generale è nell’arcivescovado di New York, sin dalla sua fondazione nel dopoguerra, e riferisce alla Congregazione per le Chiese orientali.

Oggi la Missione Pontificia in Palestina lavora con persone di diverse fedi, per creare posti di lavoro, formare i giovani, dare assistenza sanitaria, favorire il dialogo interreligioso. «La miseria non ha fatto discriminazioni tra le sue vittime in Palestina. Neanche la Missione lo fa», diceva il fondatore della stessa Missione Pontificia, mons. Thomas McMahon.

«Molti dei nostri progetti nascono da un bisogno sul campo – spiega l’attuale direttore –. Dopo la seconda intifada, Israele ha reagito impedendo l’ingresso in Israele a centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi. Abbiamo pensato quindi di identificare i disoccupati per dare loro lavoro e li abbiamo coinvolti, ad esempio, in lavori di ristrutturazione di case». Il passo successivo è stato quello di studiare progetti formativi per i giovani. È stato stretto un accordo con otto istituzioni: quattro a Gaza, tre a Gerusalemme, una a Ramallah. «Queste istituzioni forniscono opportunità di formazione ai giovani in diversi campi – racconta Joseph Hazboun –. A Gerusalemme producono ceramiche, a Ramallah è stato avviato un programma dedicato a donne disabili, a cui si insegna a fare lavori di segreteria e simili. A Gaza invece i giovani possono trovare posto in ambito ospedaliero. A Betlemme si crea lavoro attraverso un programma di ristrutturazione edilizia per la comunità cristiana».

Per quanto riguarda i profughi, la Pmp sostiene tre cliniche a Gaza, per donne incinte o per bambini appena nati, in cui si vuole essere al fianco dei più indifesi. Le sofferenze sono molte, ma il direttore della Missione Pontificia crede ancora che sia importante lavorare per la riconciliazione e il dialogo. Come? «Attraverso le nostre istituzioni cristiane. Le scuole, gli ospedali, le istituzioni di servizi sociali che sono cristiane, da sempre realizzano servizi per tutti: musulmani, cristiani, ebrei. Le persone lì si incontrano e interagiscono. Imparano a rispettarsi e a vedere gli altri accanto a loro in ogni servizio». È anche per questo che dallo scorso anno è stato lanciato un programma di attività extracurriculari per i giovani. «L’idea – continua il direttore – è stata di identificare venti scuole cristiane e altre scuole governative palestinesi. Vogliamo incoraggiare i ragazzi a leggere, vogliamo aiutare gli studenti a costruire il loro carattere e il loro pensiero critico e analitico. Vogliamo rimuovere le barriere che separano maschi e femmine e che separano musulmani e cristiani». Così attraverso attività volte a favorire la lettura o attraverso gite insieme o altre iniziative creative, «Mohammad imparerà a conoscere John».

In questo senso, una storia positiva viene proprio da un programma di formazione della Pmp: «Non posso dimenticare una ragazza in una scuola di Deir Salah, dove si stava svolgendo uno dei nostri programmi per i giovani. Stava dipingendo su della carta riciclata una moschea e un campanile. L’ho vista disegnarci sopra una croce. Per qualcuno potrebbe sembrare qualcosa di normale. Ma se tu sai che a Hebron alcuni fondamentalisti si rifiutano di dipingere croci perfino sugli oggetti che vendono ai turisti per sopravvivere, quando vedi una ragazza musulmana che senza problemi dipinge una croce, significa che il nostro programma per allentare la tensione tra musulmani e cristiani sta andando nella direzione giusta».

Ad oggi i cristiani nei territori palestinesi sono circa 50 mila, 120 mila in Israele e circa mille a Gaza. «Attualmente, però, oltre il 45 per cento delle organizzazioni è cristiano – osserva Hazboun –. Il nostro contributo come comunità cristiana va molto oltre i nostri numeri. Eppure, visti come cristiani, le nostre istituzioni non ricevono in proporzione fondi pubblici come le altre». Il compito che abbiamo rimane quello di essere aperti a tutti, secondo i valori cristiani che sono poi anche valori umani.

Più di recente, la Pmp ha iniziato una serie di attività pastorali, come corsi di introduzione e campi estivi sulla Bibbia. Un impegno per il futuro vede protagonista la scuola. «Vogliamo colmare il vuoto in ciò che si insegna a scuola sui cristiani – afferma risoluto Joseph Hazboun –. Vogliamo produrre materiale sulla nostra storia cristiana, dato che il curriculum scolastico passa dall’anno 0 alla conquista musulmana. Ignorano che nel frattempo ci fu una fiorente cultura cristiana in tutto il Medio Oriente». Conclude che, di fronte all’esodo dei cristiani, bisogna continuare a lavorare: «Vogliamo rinforzare il senso di appartenenza dei cristiani alla Terra Santa. Come mi disse il Custode di Terra Santa in un incontro, dobbiamo intendere la nostra presenza cristiana come una missione e una vocazione».

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