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La Polonia ci interroga

Giorgio Bernardelli
4 febbraio 2018
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Una nuova legge sanziona chi associ i polacchi agli eccidi avvenuti nei campi di sterminio nazista in Polonia. Proteste di Israele. Ma anche, per tutti noi, un problema con cui misurarsi.


Non ha fatto passi indietro il Parlamento polacco, approvando il primo febbraio la legge che sanziona penalmente chi associ i polacchi agli eccidi avvenuti nei campi di sterminio nazista sul suolo patrio. E questa non è decisamente una buona notizia per Israele. Ha tutta l’aria, infatti, di essere una vicenda destinata a lasciare strascichi pesanti la polemica che ormai da giorni vede contrapposti sul tema delicatissimo della memoria della Shoah i politici dei due Paesi, intenti entrambi a cavalcare le proprie opinioni pubbliche.

È una vicenda che merita uno sguardo un po’ più ampio quella sulla corretta definizione dei campi di sterminio realizzati dai nazisti entro i confini della Polonia. Partendo da un pro-memoria psicologico: insieme a quello con la Germania, il rapporto con la Polonia è fin dalla fondazione un nervo scoperto per Israele. Perché un Paese nato dopo la Shoah e con al suo interno migliaia di sopravvissuti che laggiù – nell’orrore dei campi, ma anche nelle violenze di pogrom come quello di Kielce (4 luglio 1946) – hanno lasciato famiglie intere uccise, case, ricordi, anche dopo generazioni qualsiasi notizia arrivi da quella terra sarà guardata sempre con un’istintiva dose di diffidenza. Se poi un Parlamento – sulla spinta di un vento nazionalista – arriva a votare una legge che per «difendere il nome della Polonia» cancella le zone grigie di una pagina di storia complessa, in Israele non può non suonare un allarme rosso. E quanto questo allarme sia giustificato lo prova il comunicato giunto dall’ambasciata israeliana a Varsavia, che racconta di essere sommersa in queste ore di insulti antisemiti in arrivo con ogni mezzo di comunicazione.

Ma fermarsi qui non basta: il nodo vero che questa vicenda sta portando a galla è proprio il senso più generale della memoria della Shoah. Non solo in Polonia, ma ovunque; anche dentro Israele. Perché il rigurgito nazionalista di Varsavia alla fine assomiglia molto a uno specchio che ci dice: che cosa stiamo davvero ricordando della follia nazista con il suo massacro dei sei milioni di ebrei? Più passa il tempo e più la memoria non è un esame di coscienza collettivo ma un’epopea nazionale. Continuiamo a raccontare quanto fossero crudeli i nazisti, raccontiamo – come è giusto che sia – le storie di tutte le vittime, guardiamo film che ci narrano spaccati struggenti, ma tendiamo sempre più a far sparire un ultimo aspetto: la riflessione su quanto queste derive siano qualcosa di pericolosamente vicino al cuore di ciascuno di noi. La Giornata della Memoria doveva servire a non farci dimenticare; alla fine sta avendo un effetto opposto: mitizzando il male lo stiamo allontanando da noi. E allora se Auschwitz oggi è l’icona dell’orrore contro cui tutti puntiamo comodamente il dito senza metterci più in discussione, è così strano che un Paese come la Polonia, che fu anche vittima del nazismo, cerchi di chiamarsi fuori?

L’unica strada per uscirne è ritrovare davvero la lezione universale della Shoah. Accettando di mettere in discussione tutte le zone grigie. In Polonia, certamente, ma non solo. Perché ad esempio verrebbe da chiedere: è cominciata la settimana scorsa a Varsavia l’ondata nazionalista? Ed era un altro Paese quello che, poco più di un mese fa, il governo israeliano esaltava perché all’Onu, nella fatale risoluzione dell’Assemblea generale sulla questione di Gerusalemme capitale, insieme agli altri Paesi dell’Europa dell’Est ha scelto di astenersi svicolando, in nome di un’alleanza politica, la questione del volto plurale della Città Santa? O era un’altra Polonia quella delle resistenze alla redistribuzione dei migranti in Europa? Eppure Benjamin Netanyahu (figlio di un ebreo polacco che di cognome a Varsavia faceva Mileikowsky) nel luglio scorso, da Budapest insieme ai premier di Ungheria, Croazia e Slovenia, la indicava ugualmente a modello; opponendola a quell’altra Europa «che si ostina a tirare sempre dentro la questione del processo di pace nei rapporti economici tra Unione Europea ed Israele». Con questa Polonia l’attuale governo israeliano (che oggi fa la faccia feroce) fino a poche ore fa flirtava al punto da dover annullare in fretta e furia la visita del segretario del Consiglio di difesa polacco, prevista proprio in questi giorni. Non ci vuole molto a capire perché veniva a Gerusalemme: senza la polemica sui campi di sterminio i nuovi armamenti made in Israel glieli avrebbero venduti senza problemi?

Il punto allora è: che cosa vuol dire oggi ricordare davvero? E come si traduce in scelte politiche il «mai più» ripetuto ogni anno davanti ai campi di sterminio? Lo scontro tra Polonia e Israele arriva a ricordarci in maniera molto cruda quale ruolo abbiano avuto gli interessi nazionali nel creare e nel diffondere la «banalità del male». Sarebbe il caso di ripensarci, con l’aria che tira anche in tanti altri Paesi oggi.

Leggi qui il comunicato dell’ambasciata israeliana a Varsavia

Clicca qui per leggere le dichiarazioni di Netanyahu sei mesi fa a Budapest con i premier di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia

Leggi qui la notizia dell’annullamento della visita del segretario del Consiglio della Difesa

  


 

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A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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