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Hanan, artefice del suo destino

Laura Silvia Battaglia
31 gennaio 2018
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Nel nostro diwan incontriamo un'altra donna: la saudita Hanan al-Ayyan, che è diventata top-manager della Aramco, l’azienda che lavora, raffina ed esporta i petroli estratti in Arabia.


Il diwan è un posto soprattutto di uomini e per uomini: che parlano, discutono, sorseggiano il tè, giocano a scacchi e, in qualche Stato del Golfo, masticano faglie di qat, un leggero allucinogeno. È un posto dove le donne entrano solo per portare il tè, salvo poi consumarlo altrove, in un altro diwan, spesso più piccolo e riparato. Ed è per questo che insistiamo nel raccontarvi storie di donne, per dare loro il giusto spazio. Donne che, però, nel diwan non ci entrano solo per poggiare il tè, ma per sedersi alla pari, da padrone.

Stavolta tocca accomodarsi ad Hanan al-Ayyan, saudita, che è diventata top-manager della Aramco, l’azienda che lavora, raffina ed esporta i petroli estratti in Arabia Saudita. La al-Ayyan è anche riuscita in un obiettivo mai raggiunto da molte altre sue omologhe in Europa e negli Stati Uniti, motivo per cui questo posto nel diwan è un posto di onore e di ispirazione. La sua storia è molto interessante perché Hanan al-Ayyan non è una principessa o una parente del re, con una ovvia e possibile via preferenziale ai suoi diritti e alle sue richieste, ma lavora per Aramco da 20 anni e, all’inizio, ha stentato addirittura a farsi assumere per uno stage, nel 1995. All’epoca Hana stava appunto studiando e le venne detto che tutte le posizioni dedicate agli stagisti erano state coperte. Ma non si è persa d’animo. E senza alcuna raccomandazione (quel sistema di relazioni che in Arabia Saudita si chiama wasta), Hanan ha convinto il dipartimento delle risorse umane a darle una possibilità.

Durante le dieci settimane del programma di stage, Hanan ha fatto di tutto per far bene. La memoria di lei è rimasta così vivida che, tre anni dopo, finita l’università, Aramco le ha offerto un lavoro. Hanan, che nel frattempo ha fatto due figli e ha preso un Master, è sempre molto determinata – dicono – e anche appassionata nel suo compito. Mettendo in pratica il suo motto («Controlla il tuo destino»), Hanan è riuscita a dare la prova migliore di sé – quella che l’ha portata a diventare dirigente apicale – in una situazione di emergenza: quando una nave cargo è rimasta bloccata al porto di Jedda per cinque giorni, dopo che i clienti avevano deciso di abbandonarla, rifiutandosi di scaricare il carico. Hana ha lavorato 48 ore con il suo team per recuperare il carico della nave e ha salvato più di un milione di rial sauditi (oltre 214 mila euro – ndr) che sono ritornati nelle tasche di Aramco.

Grande esempio di tenacia, passione e dedizione, Hanan dice semplicemente che «se vuoi qualcosa, con dedizione, passione e determinazione, prima o poi, te la prenderai». A guardare la storia di altre saudite che si sono ribellate alle leggi guidando, oppure praticando sport all’aperto, crediamo che Hanan sia solo la punta di un iceberg sommerso, almeno finché non verranno dati alle donne saudite gli strumenti (nel loro Paese e all’estero) per farsi sentire.

 


  

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen). È corrispondente da Sana’a per varie testate straniere.

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu). Cura il programma Cous Cous Tv, sulle televisioni nel mondo arabo, per TV2000.

Ha girato, autoprodotto e venduto otto video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

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