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La Turchia mette le ali all’industria bellica

Fulvio Scaglione
25 maggio 2017
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Come se non bastassero i produttori tradizionali - tra i quali anche l’Italia -, ora pure la Turchia trova il suo posto al sole tra i principali fornitori ed esportatori di armamenti.


Come se non bastassero le recenti imprese (collaborazione con Isis e altri gruppi terroristici in Siria e in Iraq, la repressione post-golpe, l’eterno accanirsi contro i curdi), la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan si è scoperta la vocazione del produttore e venditore di armi. Prima in casa, facendo passare le forniture made in Turkey per il proprio esercito dal 25 per cento del fabbisogno nel 2003 al 68 per cento di oggi. Ora per conto terzi, con una serie impressionante di accordi relativi all’industria della difesa stretti con mezza Africa (Benin, Tchad, Congo, Mali, Senegal, Gabon, Romania, Gambia, Somalia, Niger, Nigeria, Gibuti, Costa d’Avorio), un pezzo importante d’Asia (sottomarini all’Indonesia, navi da guerra al Pakistan), un po’ di Europa (Svezia, Ucraina, Regno Unito e Montenegro), un angolo di America Latina (Cile) e, ovviamente, una fetta significativa di Medio Oriente (Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait).

Nel 2016 l’industria turca degli armamenti ha venduto all’estero per un valore di 1,7 miliardi di dollari e il governo di Ankara si propone di raggiungere entro il 2023 esportazioni per 25 miliardi. Non si sa bene come pensi di riuscirci, visto che nel 2015 l’export aveva totalizzato introiti per 1,65 miliardi, e dunque il “progresso” nel 2016 è stato minimo. Però i Paesi che l’anno scorso hanno comprato armi turche sono importanti, ecco la lista dei principali: primi assoluti gli Stati Uniti con ordinazioni per 587 milioni di dollari, poi Germania (185 milioni), Malesia (99 milioni) e Azerbaijan (83 milioni), e via via Arabia Saudita, Regno Unito, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Tunisia. Spiccano ovviamente Usa e Germania, che criticano la politica di Erdoğan ma poi fanno affari con lui nella compravendita di armi. Ma si sa, la politica internazionale è questa roba.

Comunque sia, la Turchia crede molto in questo ramo d’impresa. Negli ultimi quindici anni (cioè, da quando Erdoğan è al potere), le spese per la difesa sono rimaste stabili, mai meno di 15 miliardi di dollari l’anno. In compenso, l’investimento in ricerca e sviluppo nel settore militare è passato da 1,8 miliardi a 20 miliardi l’anno. I risultati si vedono: Turkish Aerospace Industries e Aselsan, due aziende turche degli armamenti, sono ormai entrate stabilmente nell’elenco dei 100 big mondiali del settore e la consacrazione di questa nuova realtà si è avuta ai primi di maggio, quando proprio a Istanbul si è svolta la Fiera Internazionale dell’Industria della Difesa.

Così, come se non bastassero i produttori tradizionali (tra i quali anche l’Italia, che nel 2016 ha incrementato dell’87 per cento le vendite di armi, che erano già triplicate nel 2015 rispetto al 2014), ora ci si mette pure la Turchia. Eppure, se volete scommetterci, alla prossima guerra ci sarà anche Erdoğan tra quelli che si stupiranno, si indigneranno e magari faranno qualche appello alla pace.

 


 

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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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