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Nadia e Lamiya: «Mai più genocidi»

Chiara Cruciati
20 gennaio 2017
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Nadia e Lamiya: «Mai più genocidi»
Da sin. Nadia e Lamiya a Bruxelles, per ricevere il Premio Sakharov per la libertà di pensiero.

La tragedia del popolo curdo di fede yazida è stata ricordata a Strasburgo con il conferimento del Premio Sakharov a due ragazze sfuggite alla ferocia dell’Isis. Ecco la loro storia.


Ringrazio l’Unione Europea per questo premio che testimonia la sofferenza del nostro popolo, ma allo stesso tempo chiedo sostegno da tutto il mondo. Siamo perseguitati come comunità e come ogni minoranza in Iraq: scompariremo se non si interviene».

Con voce ferma, Nadia Murad manda il suo messaggio all’Europa. Una ragazza di soli 23 anni che dal 2014 non si dà tregua: porta in ogni angolo del mondo la sua storia e quella del popolo curdo di fede yazida per fermare il genocidio in corso. Quest’anno il Parlamento europeo l’ha insignita, insieme a Lamiya Aji Bashar, 19 anni, del premio Sakharov per la libertà di pensiero. Il 13 dicembre a Strasburgo il presidente Martin Schulz ha consegnato tra le loro mani il premio, mentre i deputati si alzavano in piedi per applaudirne il coraggio.

Ma, dicono le due giovani, la strada da fare è ancora lunga e il tempo a disposizione pochissimo, in un paese martoriato da decenni ininterrotti di guerre e ora dall’occupazione dello Stato Islamico. «Portate l’Isis di fronte alla Corte penale internazionale: tanti combattenti stranieri tornano nei loro Paesi di origine come se non avessero commesso alcun crimine – aggiunge Lamiya – Solo facendo giustizia si potrà evitare che accadano altri genocidi».

A monte sta la visione manichea dell’estremismo dell’Isis, portatore di un’interpretazione distorta dell’Islam che punta a cancellare la ricchezza etnica e religiosa del Medio Oriente, la sua storia millennaria, i tanti popoli che lo hanno attraversato e lo vivono. Gli yazidi sono stati da subito nel mirino, accusati di blasfemia: una fede antichissima (secondo alcuni storici precedente all’ebraismo) di tipo sincretico e monoteista. I fedeli dello yazidismo venerano sette angeli, creati dal Dio primordiale. Tra questi spiriti angelici il primo e più importante è l’Angelo Pavone (Tawisi Melek). Oggi sono circa 800 mila gli yazidi nel mondo, per lo più stanziati in Iraq, nella regione del Sinjar.

Ad agosto 2014 i miliziani islamisti hanno attaccato Sinjar con una violenza senza precedenti: migliaia di uomini sono stati giustiziati, i bambini rapiti, le donne schiavizzate. Chi ce l’ha fatta è fuggito sul monte Sinjar per ritrovarsi sotto assedio, senza cibo né acqua fino all’intervento dei peshmerga di Erbil e dei combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistran e delle Unità di protezione popolare siriane.

Sarebbero ancora 3.300 le donne e i bambini schiavi dell’Isis che procede al genocidio della comunità con strumenti diversi: alle esecuzioni e alle fosse comuni, si aggiunge lo sradicamento dalla terra, la violenza sulle donne, volta a spezzare i legami comunitari e l’indottrinamento dei bambini. «Chi è riuscito a fuggire ha bisogno immediato di sostegno psicologico – spiega Nadia – Donne e bambini sono traumatizzati e hanno perso ogni prospettiva di vita». La maggior parte di loro si trova nei campi profughi del Kurdistan iracheno, in condizioni estremamente difficili. E ad aiutarli, aggiunge Lamiya, ci sono poche organizzazioni e nessuna strategia strutturale: «Chi di noi si è liberata lo ha fatto da sola, senza alcun aiuto. Dopo due anni non è stato ancora messo in piedi un effettivo sostegno internazionale: c’è bisogno di fornire servizi e assistenza psicologica, ma soprattutto garantire la protezione internazionale perché possiamo tornare a casa».

Sinjar è stata liberata poco più di un anno fa, a novembre 2015, ma il ritorno è reso quasi impossibile dagli scontri militari nell’ovest dell’Iraq, a partire da Mosul. E la frammentazione del Paese, dell’unità nazionale, si è talmente radicata da impedire oggi una ricostruzione che non sia solo fisica ma anche psicologica, sociale, politica.

L’Europa ascolta Nadia e Lamiya, le premia e promette aiuto. Il presidente del parlamento Schulz alza la voce: «Abbiamo detto “mai più” ai genocidi, per questo la questione yazidi ci tocca direttamente. Vediamo comunità cancellate e civili uccisi, ma non tendiamo la mano. È vergognoso». Le due giovani salutano, con gli occhi bassi: raccontare le violenze subite riporta alla luce ogni giorno lo stesso dolore, ma – dicono – «non ci fermeremo perché siamo la voce delle donne ancora schiave, dei morti nelle fosse comuni, di chi nel mondo è vittima della tratta».

 


 Giovani ambasciatrici contro la tratta

Il 3 agosto 2014 l’Isis ha preso d’assalto il villaggio yazida di Kocho, in Iraq. Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar sono state rapite insieme a migliaia di donne e bambini e portate a Mosul, dove sono state vendute come schiave sessuali.

Nadia, 23 anni, ha visto massacrare i sei fratelli e la madre per poi finire prigioniera di violenze indicibili: stupri, pestaggi, torture. Lamiya, 19, è stata costretta a confezionare cinture esplosive per i futuri kamikaze.

A novembre del 2014 Nadia è riuscita a fuggire grazie all’aiuto di una famiglia irachena. È arrivata nel Kurdistan iracheno e da lì è scappata in Germania. Un anno dopo ha parlato al Consiglio di Sicurezza Onu del genocidio in atto contro il suo popolo e a settembre 2016 è stata nominata prima ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta.

Lamiya è rimasta in mano all’Isis fino all’aprile 2016: la famiglia è riuscita a pagare dei trafficanti che l’hanno portata via da Mosul. Ma una mina è esplosa sulla via della fuga: una delle sue compagne è morta e Lamyia è stata gravemente ferita al volto, perdendo quasi del tutto la vista. In Germania ha potuto riabbracciare i fratelli.

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