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Il conto salato del golpe turco

Giuseppe Caffulli
20 luglio 2016
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Il conto salato del golpe turco
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

Il presidente-sultano Recep Tayyip Erdoğan esce molto rafforzato dal tentato golpe militare della notte tra il 15 e 16 luglio. I conservatori sono schierati con lui e le epurazioni dilagano.


Nella notte tra il 15 e 16 luglio scorsi, la notte del golpe fallito (o fasullo) in Turchia, sicuramente Akgül sarà stata tra gli illusi scesi in piazza a Istanbul a festeggiare, per poche ore, la possibilità di una svolta nella politica turca. Posto che la violenza va sempre rigettata, e che con la sua vita di insegnante ha sempre cercato di trasmettere la tolleranza e il rispetto, la donna (il cui nome per ovvi motivi è di fantasia) ha intravisto per un attimo la possibilità di una inversione di tendenza rispetto alla situazione attuale. «Un paradosso – dice – se siamo arrivati al punto di preferire un golpe militare…».

Akgül ha vissuto la stagione di Gezi Park e conosce sulla sua pelle i lacrimogeni e i getti degli idranti contenenti sostanze chimiche urticanti sparati dalla polizia. Ha vissuto attonita il sempre più stringente bavaglio all’informazione, l’erosione dei diritti umani e delle libertà individuali, il controllo nelle scuole sui metodi d’insegnamento. Come gran parte dei giovani turchi si è interrogata sul suo futuro e su quello del Paese… E non ha trovato una risposta.

Per questa ragione, la sera del 15 luglio, ha sperato e forse è scesa in piazza, immaginando per un momento che una Turchia diversa potesse sbocciare, pur nel rischio di un regime militare per definizione autoritario, ma non certamente succube degli editti diramati in moschea e degli interessi del clan presidenziale.

Quello che sta capitando in queste ore a Istanbul e nelle altre città della Turchia, conferma come il tentato (o inscenato) golpe abbia in realtà ottenuto come unico esito quello di rafforzare a dismisura il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Ma come effetto collaterale (forse non difficile da prevedere) ha scatenato, oltre ad una repressione feroce e senza precedenti, intimidazioni e atti violenti contro le minoranze politiche e religiose, cristiani in testa, ad opera dei fiancheggiatori del regime, pronti a prendersi qualche vendetta (anche personale).

A Trebisonda, per esempio, alcuni facinorosi hanno compiuto atti vandalici contro la chiesa dove nel 2016 fu ucciso il sacerdote fidei donum di Roma don Andrea Santoro; la stessa cosa – riporta Radio Vaticana – è avvenuta a Malatya ad una chiesa protestante. A far gioco anche la chiamata di Erdogan al complotto americano, che aiuta a individuare ulteriormente i cristiani come «nemici».

Il fatto è che in questo momento le fazioni dell’Islam conservatore, che si è schierato prontamente con Erdogan, si sentono molto forti, specie dopo l’epurazione dei 400 imam «infedeli» e degli insegnanti di religione non allineati. Un attivismo che sfocia spesso in aggressioni, violenze e veri e propri linciaggi volti a moralizzare il volgo. A Istanbul sono stati aggrediti dei ragazzi che erano stati visti bere una birra in pubblico e ci sono state aggressioni anche a minoranze religiose come quella degli alawiti, spiega Dimitri Bettoni, che si occupa della sezione turca dell’Osservatorio Balcani e Caucaso.

Le proporzioni di quello che sta capitando in Turchia non sono ancora completamente decifrabili. Ma i dati di questa gigantesca purga, che consegna di fatto a Erdogan una sorta di potere assoluto come al tempo della Sublime Porta, sono impressionanti: «Il sistema giudiziario – spiega Bettoni – ha visto sospesi dal servizio 2.754 tra giudici e procuratori, 140 membri della Corte suprema d’appello, 48 esponenti del Consiglio di Stato mentre sono stati arrestati due membri della Corte Costituzionale. Il ministero per gli Affari religiosi, che ha mobilitato le moschee nella fatidica notte del tentato golpe unendosi all’appello di Erdoğan rivolto ai cittadini – invitati a scendere in strada – ha visto 492 suoi membri venire destituiti. La stessa istituzione ha annunciato nel frattempo di rifiutare il servizio funebre ai deceduti coinvolti nel tentativo di golpe. Negli uffici del primo ministro sono invece 257 i dipendenti sospesi dal servizio. 393 quelli sospesi dal ministero per la Famiglia e le Politiche sociali».

A fare le spese dell’ira del «sultano di Istanbul» (come veniva chiamato Erdoğan quando era sindaco della popolosa città sul Bosforo) anche il mondo della cultura: «I rettori delle università sono stati convocati dal portavoce del Consiglio per l’Istruzione Superiore, il quale ha annunciato che «si discuteranno i provvedimenti che adotteremo per ripulire la comunità accademica da questo gruppo» (coloro che si ispirano agli insegnamenti e all’organizzazione Cemaat di Fetullah Gülen, in esilio negli Stati Uniti, e indicato come ispiratore del complotto – ndr). 15.200 provvedimenti di sospensione sono già stati diramati ai dipendenti del ministero dell’Istruzione; la tivù pubblica TRT ha annunciato che le autorità hanno formalmente chiesto le dimissioni dei 1.557 presidi delle facoltà universitarie turche. Il Consiglio ha inoltre sospeso l’autorizzazione all’insegnamento a 21 mila insegnanti delle scuole private».

Negli ultimi vent’anni la realtà della Turchia si è fortemente polarizzata. Accanto ad una borghesia urbana e acculturata che guarda all’Occidente, è cresciuta nuova classe media conservatrice soprattutto nelle città dell’Anatolia e nelle aree rurali. Questa nuova fascia di popolazione è oggi lo zoccolo duro dell’elettorato di Erdoğan. E come Erdoğan non accetta più di essere subalterna al progetto kemalista che vede l’esercito – eternamente – ago della bilancia e nume tutelare della laicità dello Stato. Questa nuova classe media si concepisce invece oggi come protagonista indiscussa della scena politica in una Turchia che sogna una stagione di neo-ottomanesimo, guarda alla Russia e ambisce di tornare ad essere leader del mondo sunnita. Se non si tiene conto di questo aspetto, non si comprende come – di fronte ai blindati dell’esercito – una buona fetta dei turchi abbia risposto opponendosi ai militari e aderendo alla mobilitazione invocata da minareti e moschee per la «difesa della democrazia» alla Erdoğan.

Una «democrazia» che sta ora provvedendo, con metodi che di democratico non hanno nulla, alle epurazioni di massa di cui sopra, con l’obiettivo di azzerare macchina statale e corpi intermedi per poterli (forse) ricostruire sulle basi di un’illusione ancora più grande: non quella della composizione degli interessi delle parti (come avviene in ogni società complessa) ma solo ed esclusivamente sulla provata fedeltà al governo.

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