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«Anche i copti sono egiziani!»

Elisa Ferrero
26 luglio 2016
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Un rapporto dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona pubblicato il 18 luglio dice che gli episodi di violenza settaria nei confronti dei copti sono in aumento negli ultimi mesi, concentrati nella provincia di Minya, a sud del Cairo. Una terra di arretramento economico e culturale, dove l'estremismo musulmano fa proseliti.


«Solo per ricordarle, signor Presidente, che i copti sono egiziani e Minya è una provincia egiziana». A twittare questa frase, il 17 luglio, è stato anba Macarius, vescovo di Minya. Il motivo di questo tweet amaro, rivolto direttamente al presidente Abdel Fattah el-Sisi, si può leggere nel rapporto dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona (Egyptian Initiative for Personal Right, Eipr), pubblicato il 18 luglio sul sito web dell’organizzazione. Secondo questo rapporto, gli episodi di violenza settaria nei confronti dei copti sarebbero in preoccupante aumento negli ultimi mesi, concentrati nella provincia di Minya, a sud del Cairo. In quest’area, risiede la più alta concentrazione di cristiani egiziani, con una popolazione costituita al 50 per cento di copti. Nella stessa area, l’Eipr ha documentato ben 77 episodi di violenza settaria dal 25 gennaio 2011 (non contando i numerosi incidenti occorsi fra il 14 e il 17 agosto 2013, quando i sostenitori dell’ex presidente Mohammed Morsi attaccarono i cristiani per ritorsione contro il suo spodestamento). Dieci di questi episodi sono accaduti solo fra gennaio e luglio 2016. Gli ultimi tre mesi, in particolare, sono stati scoraggianti. Si è cominciato a maggio, a el-Karm, con l’aggressione a un’anziana donna, denudata e trascinata per strada, perché il figlio era sospettato di avere una relazione con una musulmana. Poi, il 29 giugno, nel villaggio di Kom al-Loufi, nel distretto di Samalout, centinaia di musulmani radicali locali hanno dato fuoco a diverse case di copti, pensando che stessero costruendo una chiesa. Il 15 luglio, una scena analoga si è ripetuta nel villaggio di Abu Yacouub. Il 17 luglio, invece, c’è stato l’assalto ai parenti di un prete nel villaggio di Tahna al-Gabal, pugnalati da un gruppo di fanatici musulmani in seguito a una lite per un diritto di precedenza. Un ragazzo di 27 anni è rimasto ucciso, mentre gli altri sono stati feriti più o meno gravemente. Se poi si esce dalla provincia di Minya, l’elenco delle aggressioni a sfondo settario si allunga. Il 2 luglio, una ragazza copta è stata acciuffata per i capelli e pugnalata al collo; il 9 luglio, a Tanta, un farmacista ha subito la stessa sorte; e l’elenco potrebbe continuare.

La maggior parte di questi episodi segue lo stesso schema: si sparge la voce che si stia costruendo una chiesa, o che due persone appartenenti a religioni diverse abbiano una relazione, e in poco tempo si raduna una banda di musulmani estremisti che attacca i copti. Alternativamente, il conflitto può innescarsi dopo un qualsiasi litigio futile fra due persone, per trasformarsi in violenza settaria collettiva. Spesso, i testimoni affermano che le forze dell’ordine intervengono con ritardo o lasciano fare. Immancabilmente, le autorità statali e religiose istituzionali spingono per una veloce ricomposizione del conflitto attraverso assemblee di riconciliazione extragiudiziarie di origine tribale che non rendono giustizia alla parte lesa.

In risposta al tweet di anba Macarius, il presidente el-Sisi ha riaffermato che «non c’è differenza fra musulmani e copti, tutti sono cittadini egiziani» e che la legge sarà applicata. Gli ha fatto eco il patriarca copto Tawadros, che ha invitato a non sfruttare i recenti eventi per dividere gli egiziani. Slogan ripetuti, che non bastano più. La novità, però, è che molti copti iniziano ad alzare la voce sia nei confronti dello Stato sia nei confronti della Chiesa, per quanto rischioso possa essere. Chiedono giustizia, non riconciliazione. Chiedono il varo, finalmente, di una legge unificata sulla costruzione dei luoghi di culto, vanamente promessa da tutti i presidenti succedutisi alla guida del Paese dal 2011. Chiedono la fine del trattamento delle violenze settarie come casi isolati, risolvibili solo sul piano della sicurezza, e il riconoscimento che l’Egitto ha un problema diffuso di cultura settaria.

Nadia Henry, deputata copta del Partito degli Egiziani Liberi fondato dal magnate Naguib Sawiris, ha alzato la voce in Parlamento, reclamando con forza indagini e provvedimenti seri, ma è stata frettolosamente dimessa dal suo stesso partito. Anba Macarius, e altri come lui, continuano a esortare le vittime di violenze settarie a rifiutare le sessioni di riconciliazione. L’Unione dei Giovani del Maspero ha chiesto il boicottaggio, da parte di papa Tawadros, di tutti gli incontri ufficiali con le autorità statali. Ma il problema del settarismo in Egitto, dice l’attivista Mina Thabet, direttore del programma per le minoranze della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, è un’equazione complicata. Nella provincia di Minya l’analfabetismo raggiunge il 40 per cento, l’Alto Egitto versa in condizioni di grande sottosviluppo. Nella negligenza statale, gli islamisti hanno assunto il controllo, attraverso la loro rete di welfare, della maggioranza delle scuole. La storia del cristianesimo in Egitto, nei vetusti programmi scolastici, è raccontata – quando è raccontata – in maniera distorta. Secondo Ishak Ibrahim, ricercatore dell’Eipr, è chiaro che un contesto sociale del genere, povero materialmente e culturalmente, abbandonato al dominio dell’islam radicale, è estremamente vulnerabile alle tensioni settarie. Il lavoro sociale e culturale da fare sarebbe immenso, ma lo Stato non mostra alcuna volontà di voler affrontare il problema. In fondo, finché i copti saranno impauriti, preferiranno sostenere il regime militare, piuttosto che rischiare di tornare a un governo islamista. Ma fino a quando funzionerà questa tecnica?

 


Perché “Kushari”

Il kushari è un piatto squisitamente egiziano. Mescolando ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro, in un amalgama improbabile fatto di pasta, riso, lenticchie, hummus, pomodoro, aglio, cipolla e spezie, pare sfuggire a qualsiasi logica culinaria. Eppure, se cucinati da mani esperte, gli ingredienti si fondono armoniosamente in una pietanza deliziosa dal sapore unico nel mondo arabo. Quale miglior metafora per l’Egitto di oggi? Un Egitto in rivoluzione che tenta di fondere mille anime, antiche e recenti, in una nuova identità, che alcuni vorrebbero monolitica e altri multicolore. Mille anime che potrebbero idealmente unirsi, come gli ingredienti del kushari, per dar vita a un sapore unico e squisito, o che potrebbero annientarsi fra acute discordanze. Un Egitto in cammino che è impossibile cogliere da una sola angolatura. È questo l’Egitto che si tenterà di raccontare in questo blog.

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