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Il prezzo del Ritorno

Luca Balduzzi
24 febbraio 2016
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Il prezzo del Ritorno
Trovarsi in un posto non significa automaticamente esserne parte. Una scena da P.S. Jerusalem

Amos Elon abbandonò in maniera definitiva Israele nel 2004 e fece promettere che la sua famiglia non vi avrebbe mai fatto ritorno. Ma dopo la sua morte, la figlia regista Danae decise di infrangere la promessa...


Suo padre abbandonò in maniera definitiva Israele nel 2004 e le fece promettere che la sua famiglia non vi avrebbe mai più fatto ritorno. Lui era Amos Elon, giornalista e storico, in un primo momento grande sostenitore del movimento sionista per la creazione di uno Stato ebraico, non solamente attraverso le sue opere (basti citare il saggio biografico dedicato alla vita di Theodor Herzl, padre del sionismo) ma anche in maniera «attiva» (la militanza nellʼHaganah, lʼorganizzazione militare clandestina israeliana), poi altrettanto convinto critico nei confronti dellʼoccupazione ebraica delle alture del Golan, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967.

Dopo la morte del padre, nel 2009, la regista Danae Elon ha deciso di infrangere quella promessa e di trasferirsi da New York a Gerusalemme, per far nascere il suo terzo bambino nella sua città natale, ma ancora di più per far scoprire e capire agli altri due figli le proprie origini.

Il racconto di quegli anni ha trovato forma nel documentario P.S. Jerusalem, presentato in anteprima nel corso della 40.ma edizione del Festival internazionale del film di Toronto, nel settembre dello scorso anno, e riproposto durante la 66.ma edizione della Berlinale, all’interno della sezione Forum.

È facile immaginare quanto la decisione della Elon si sia rivelata tuttʼaltro che semplice da gestire.

A soffrirne maggiormente è il marito Philippe. È da lui, incapace di trovare un lavoro come fotografo e pur animato dalla speranza che i loro bambini possano «non sentirsi colpevoli, ma scoprire nuovi valori», che arrivano i commenti più pesanti nei confronti di Israele: «una mostruosità», «un paese di ladri», «un posto pieno di violenza e di vendetta», in cui «mi fanno capire in continuazione che non faccio e non potrò mai fare parte di questo mondo», addirittura «il diavolo».

Non va meglio, però, neanche per il figlio più grande, Tristan, che a Gerusalemme comincia a frequentare la scuola elementare Hand in Hand, in cui i bambini ebrei e palestinesi crescono gli uni a fianco degli altri. Se all’inizio rinuncia a partecipare allo Yom HaZikaron (la giornata in ricordo dei soldati israeliani caduti e dei civili vittime del terrorismo) e segue – poco più che pedissequamente – sua madre in una dimostrazione contro i nuovi insediamenti a Gerusalemme Est, con il passare del tempo arriva a chiedersi se non vi siano “alternative” migliori rispetto all’essere un ebreo: magari essere un arabo, dopo che i suoi compagni gli dicono che «gli arabi sono il popolo più intelligente del mondo», o semplicemente «rivendicare» e mantenere la propria cittadinanza statunitense.

Sono sufficienti tre anni per convincere anche la Elon che «trovarsi in un luogo non significa automaticamente esserne parte», e che se «dividere la famiglia è il prezzo da pagare», come le prospetta il marito Philippe, forse è meglio rifare le valigie e tornare a Brooklyn.

Anche se non ci sono risposte corrette e sbagliate, e soprattutto facili, quando l’individualità si scontra con la famiglia, il passato con il presente, la speranza con la realtà.

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