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A cinque anni dalla rivoluzione di piazza Tahrir: un anniversario surreale

di Elisa Ferrero
26 gennaio 2016
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Sono passati cinque anni da quel 25 gennaio 2011 che ha segnato l’inizio della rivoluzione egiziana. Cinque anni che hanno portato alla luce i profondi tormenti di una nazione. Da allora, gli anniversari della rivoluzione sono sempre stati una cartina di tornasole dell’umore della nazione e quest’ultimo non ha fatto eccezione.


Sono passati cinque anni da quel 25 gennaio 2011 che ha segnato l’inizio della rivoluzione egiziana. Cinque anni che hanno portato alla luce i profondi tormenti di una nazione, nella quale è accaduto quasi di tutto. Da allora, gli anniversari della rivoluzione sono sempre stati una cartina di tornasole dell’umore della nazione e quest’ultimo non ha fatto eccezione.

Nessuno, quest’anno, ha lanciato appelli per scendere in strada a manifestare, tranne qualche gruppo sparuto di sostenitori della Fratellanza Musulmana che, anacronisticamente, vorrebbe ancora riportare il deposto Mohammed Morsi alla presidenza della repubblica. Chi, nel 2011, era fra le centinaia di migliaia di persone radunate in piazza Tahrir, o in altre piazze egiziane, ha preferito restare a casa, ritirandosi nei propri ricordi. Unica celebrazione rilevante di questo anniversario è stato un hashtag: «Ho partecipato alla rivoluzione di gennaio». In poche righe, ognuno ha descritto brevemente il proprio ricordo personale della rivoluzione che in quel momento era particolarmente vivido o urgente. Memorie belle e commoventi, raccontate con un filo di tristezza e un filo di speranza.

Gli ultimi cinque anni hanno provato gli animi, esaurito energie, messo alla prova affetti, portato via illusioni. Il regime non è stato con le mani in mano. Ha combattuto un’astuta battaglia «di significato» contro lo spirito della rivolta di gennaio, prima assecondandolo, poi appropriandosene lentamente e infine stravolgendolo nel consueto discorso tradizional-nazionalista. Tanto che ieri – ironia della sorte – le uniche persone presenti in piazza Tahrir sono state i poliziotti (gli stessi contro i quali gli egiziani si ribellarono il 25 gennaio 2011) che distribuivano fiori ai passanti, in occasione della loro festa.

La stessa piazza Tahrir, in cinque anni, ha cambiato volto. Ben lo descrive lo scrittore e giornalista Ahmed Nagy (sul quale, fra l’altro, pende una causa giudiziaria per danno alla morale pubblica) in un articolo del 7 gennaio per Huna Sotak. Nagy racconta di come il governo, negli ultimi anni, abbia cancellato dal centro del Cairo qualsiasi traccia di storia recente legata alla rivoluzione. L’area nei dintorni di piazza Tahrir era diventata, con la rivoluzione, il cuore culturale pulsante della città, dove i giovani si incontravano, discutevano e sperimentavano forme d’arte e idee per il futuro. Molti caffè del centro città, che prima erano semplicemente luoghi per fumare la shisha e bere il tè, erano diventati piccoli centri di arte e cultura, che ospitavano mostre o eventi musicali, letterari e teatrali. Attività troppo pericolose per il regime che, sfruttando pretesti burocratici, ha deciso di chiudere parecchi esercizi, come il famoso «bar degli atei», e associazioni culturali, come la Galleria Town House. È partito inoltre un vasto progetto di rinnovo e sviluppo del centro città (per riportarlo agli splendori dei tempi del Khedivè Ismail), sostenuto, fra l’altro, da fondi dell’Unione Europea. Solo che questo progetto– secondo Nagy – se da un lato ha fatto pulizia di spazzatura e venditori ambulanti, e dato una rinfrescata agli edifici storici della zona, dall’altro ha cacciato da quei luoghi i giovani che erano stati l’anima della rivoluzione, con le loro sperimentazioni artistiche e culturali. Il risultato, citando Nagy, è che il centro città è stato trasformato in un «museo a cielo aperto per i fantasmi»: esteticamente più bello e più pulito, ma quasi deserto se lo si paragona al grande fermento vitale seguito alla rivoluzione.

Nagy non è il solo a raccontare questi sentimenti di fronte al rifacimento di immagine della simbolica piazza Tahrir. E da qui, forse, si capisce l’esigenza dei protagonisti della rivoluzione del 2011, conosciuti o sconosciuti che siano, di rintanarsi nella propria intimità nel giorno dell’anniversario della rivoluzione, per ritrovare in se stessi la piazza Tahrir di un tempo, per ricordare e riflettere, per metabolizzare tutti gli eventi, personali e pubblici, degli ultimi anni e recuperare forze, in attesa. L’attesa è palpabile, infatti. Sono in molti a credere che non sia ancora finita. Più di ogni altro, paradossalmente, sembra esserne cosciente il regime che, nei giorni precedenti l’anniversario della rivoluzione, è entrato in uno stato di paranoia, effettuando nuovi arresti di attivisti e raid di appartamenti, dispiegando sproporzionate forze militari e di polizia, e persino enfatizzando le pessime previsioni del tempo per il 25 gennaio. Complici nell’acuire il nervosismo del governo, le nuove turbolenze della non lontana Tunisia. Il presidente Abdel Fattah el-Sisi, nel suo discorso in occasione della festa della polizia, si è persino rivolto direttamente ai tunisini, pregandoli di preservare il loro Paese, perché la situazione economica è grave ovunque. Lo scrittore Alaa al-Aswany ha pubblicamente deriso questa paranoia improvvisa, ricordando che, quando sussistono le condizioni di una rivolta, questa può scoppiare in un giorno qualsiasi.

Intanto, trascorso anche il quinto anniversario della rivoluzione, resta in mente l’immagine simbolica di Sana Seif – sorella del celebre attivista Alaa Abdel Fattah, tuttora in prigione – che percorre da sola il tratto fra piazza Mostafa Mahmoud e piazza Tahrir, indossando una maglietta con la scritta: «È ancora la rivoluzione di gennaio». Il suo corteo solitario, è accompagnato da un messaggio: «Quest’anno ero sola, ma sono sicura che il prossimo anno migliaia di persone marceranno con me».

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