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Sfollati in un Iraq sbriciolato

Chiara Cruciati
17 novembre 2015
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Sfollati in un Iraq sbriciolato
Un angolo del campo profughi di Baharka nei pressi di Erbil (Kurdistan iracheno).

Le difficoltà di una vita ai margini, gli incubi ricorrenti, la paura per il futuro. Breve viaggio dentro uno dei campi profughi allestiti nel Kurdistan iracheno per offrire un provvisorio rifugio a chi ha dovuto scappare davanti all'avanzata del sedicente Stato Islamico. Ma anche dagli effetti delle tante divisioni e inimicizie nell'Iraq dei nostri giorni.


Per entrare nel villaggio iracheno di Omar la jeep esce dalla strada principale e prosegue in mezzo al fango. Siamo venti minuti a sud di Kirkuk, una grande pianura e il fuoco delle raffinerie sullo sfondo. Il villaggio è piccolo, case di fango, una moschea e qualche tenda con il marchio Unicef.

I residenti appartengono alla tribù Shamar, sono arabi sunniti. Allo stesso gruppo etnico appartengono gli abitanti del vicino villaggio di Saad: per questo, quando un anno e mezzo fa fuggirono dall’avanzata dello Stato Islamico, si rifugiarono qui. È una comunità molto povera, che sopravvive con la vendita di latte e formaggio prodotto grazie alle poche capre a disposizione. In una simile situazione, l’arrivo di qualche centinaia di sfollati non ha che peggiorato la situazione. Qui lo Stato non c’è, né ci sono le organizzazioni internazionali: «A volte, ogni 4-5 mesi, ci mandano cibo da fuori», ci dice una donna di 30 anni, Mona, mentre abbraccia l’ultimo dei suoi cinque figli.

La zona di Kirkuk, al centro dell’Iraq, area di confine tra il Kurdistan iracheno e il territorio di Baghdad, accoglie oggi 400 mila sfollati, ma le capacità di seguirli sono al minimo. Le Nazioni Unite hanno difficoltà anche a contarli, a registrarli, e i continui scontri per il controllo della città – tra le più ricche di petrolio – tra peshmerga kurdi e milizie sciite irachene rende quasi impossibile il lavoro di organizzazioni non governative.

In una tenda al centro del villaggio incontriamo alcune donne, tutte sfollate, chi da Saad, chi da Tikrit, chi da Mosul. Raccontano le difficoltà di una vita ai margini e degli incubi ricorrenti, della paura per il futuro: «Non riesco a dormire – dice Ayeh –. Vedo di continuo teste mozzate e il volto di mio figlio, ucciso dall’Isis». Una storia comune a tante: «Sono sempre nervosa, qualsiasi cosa mi fa saltare. Ho sempre davanti i volti delle persone che conoscevo, uccise dalle bombe», aggiunge un’anziana signora prima di salutare e andarsene.

La preoccupazione per il futuro è radicata perché molti sono consapevoli che il conflitto non finirà con la sconfitta dello Stato Islamico: la guerra guidata dagli Usa del 2003, la caduta di Saddam, gli anni del terrorismo interno hanno frantumato una società ricca di etnie e religioni diverse, che il rais aveva tenuto insieme con un raffinato sistema di potere clientelare e con l’appoggio delle tribù. Oggi quel sistema è collassato e i settarismi interni stanno distruggendo l’Iraq.

E l’accoglienza dei profughi. Tra quelli riparati al centro del Paese e quelli arrivati nel Kurdistan iracheno, la differenza è palpabile. Il governo iracheno non fa più entrare sfollati a Baghdad, bloccandoli in zone cuscinetto al confine con la linea del fronte. «Sono irraggiungibili dalle ong – ci dice un’operatrice umanitaria chiedendo l’anonimato –. Le poche che riescono ad andare, dopo negoziati infiniti con ogni attore del conflitto, riescono a fare ben poco, parliamo di centinaia di migliaia di persone».

La divisione avviene su base etnica: ai sunniti l’ingresso nelle zone sciite è più difficile, perché il timore di Baghdad è che con loro entrino anche potenziali miliziani dell’Isis. Lo stesso accade a nord, nel Kurdistan iracheno, che in un anno e mezzo ha aperto le porte a due milioni di sfollati interni e rifugiati siriani. Per poi richiuderle: l’enorme afflusso di persone, il 25 per cento della popolazione locale, sta provocando serie tensioni interne con i residenti. Per cui si fa entrare solo chi presenta garanzie, di nuovo su basi etniche.

«Per poterti muovere liberamente, per trovare un lavoro stabile, per accedere a certi servizi, devi possedere l’iqama, il permesso di residenza rilasciato dalle autorità curde – ci spiega Mohammed, giovane palestinese nato a Baghdad e ora profugo nel campo di Baharka, a Erbil –. Per ottenerla devi avere un sponsor curdo che garantisca per te e devi sottoporti a lunghi interrogatori con la polizia politica curda e a esami del sangue. A me non l’hanno data, sono sunnita. Per yazidi, curdi e cristiani è molto più semplice perché trovano facilmente uno sponsor».

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