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Intifada o no, l’odio aumenta

di Giorgio Bernardelli
7 ottobre 2015
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Cosa sta succedendo in questi giorni a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi? Stanchi di una storia che sembra ripetersi sempre uguale, distratti dalle tante altre crisi aperte in Medio Oriente, in queste ultime settimane abbiamo assistito con parecchia indifferenza all’inasprirsi della tensione intorno al solito posto: la Spianata delle Moschee/Monte del Tempio. Finché a risvegliarci non è stato uno dei più violenti fine settimana a cui Gerusalemme e la Cisgiordania abbiano assistito negli ultimi anni...


Ma di preciso che cosa sta succedendo in questi giorni a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi? Ho già avuto modo di scrivere ormai troppe volte che la domanda se siamo o no davanti all’inizio di una terza intifada dice solo quanto abbiamo ormai perso di vista Israele e la Palestina. Stanchi di una storia che sembra ripetersi sempre uguale, distratti dalle tante altre crisi aperte in Medio Oriente, in queste ultime settimane abbiamo assistito con parecchia indifferenza all’inasprirsi della tensione intorno al solito posto: la Spianata delle Moschee/Monte del Tempio. Finché a risvegliarci non è stato uno dei più violenti fine settimana a cui Gerusalemme e la Cisgiordania abbiano assistito negli ultimi anni, con l’apice delle violenze con le due coppie di genitori israeliani uccisi – una a Itamar, l’altra addirittura nella Città Vecchia di Gerusalemme – e la reazione con la chiusura assoluta per due giorni della Città Santa ai palestinesi e la durissima repressione nei Territori.

Così oggi ecco di nuovo la solita domanda: è la terza intifada? Secondo me è un interrogativo che non ha proprio senso, perché presupporrebbe una precedente situazione di calma a Gerusalemme che adesso si è turbata. Ma se il ragionamento fosse davvero questo, più che parlare di terza intifada sarebbe più realistico parlare di sesta o settima, vista la quantità di ondate di violenza con pesante bilancio di vittime che si sono susseguite dal 2004 (l’anno della fine della seconda intifada) fino a oggi. Anche al di là dei numeri, però, il punto vero è che proprio il paradigma dell’intifada ormai è fuorviante. Perché butta lì l’allarme su una rivolta generalizzata e prolungata che poi – almeno per come sono andate le cose fino ad ora – puntualmente rientra dopo qualche giorno. Ma rientra non perché il tasso di violenza e di ostilità reciproca scenda, ma semplicemente per inerzia: tutti – da una parte e dall’altra – si ricordano che cosa furono gli anni tra il 2000 e il 2004 e non vogliono ritornarci. E poi, nel campo palestinese, la situazione oggi è molto più confusa, con leadership logorate ed eternamente in lotta tra loro.

Ma il fatto che l’intifada non dilaghi a tutto campo non vuol dire che possiamo starcene tranquilli. Perché l’odio comunque cresce e spesso – anziché in azioni organizzate – finisce per esplodere in gesti del tutto imprevedibili, rintuzzando in continuazione il fuoco che arde sotto la cenere.

Per dirla un altro modo: la storia non si ripete mai nelle stesse forme. E l’intifada di oggi – se vogliamo comunque chiamarla così – è un conflitto all’arma bianca, portato avanti a bassa intensità. Non l’attentato clamoroso ma il furgone sulla folla alla fermata del tram, l’imboscata con le pietre all’auto dei coloni, l’accoltellamento entro le mura della Città Vecchia. È il tipo di attacchi che per qualsiasi sistema di sicurezza è impossibile prevenire. E ai quali Israele risponde con la repressione generalizzata nei Territori, che provoca nuovi morti e non fa altro che alimentare il circolo vizioso.

Tutto questo ha una ragione ben precisa: la bancarotta della politica rispetto al conflitto israelo-palestinese. Con Benjamin Netanyahu che si illude di poter «gestire» il conflitto anziché proporre una strada per affrontarlo; pretende di parcheggiarlo come se non ci fosse preoccupandosi più di non scontentare gli alleati dell’estrema destra su insediamenti e provocazioni nazionaliste; salvo poi ritrovarsi in Israele a piangere ancora una volta nuove vite umane. Nel frattempo l’Autorità Palestinese si illude di essere forte per un alzabandiera all’Onu che di fatto nasconde solo mille altre contraddizioni. Il tutto mentre la comunità internazionale ha semplicemente cancellato Gerusalemme dai radar (nel suo discorso alle Nazioni Unite, giorni fa, Barack Obama ha saltato a pie’ pari Israele e Palestina).

Ci sarebbe un solo modo oggi per uscire da questa apatia che finisce per grondare sempre nuovo sangue: ci vorrebbe un’iniziativa che riportasse davvero sotto i riflettori la Spianata delle Moschee/Monte del Tempio, il luogo simbolo per eccellenza dello scontro. Una presa di posizione forte, in cui politici, leader religiosi, movimenti dicessero insieme con chiarezza a Israele che permettere con sempre più facilità a movimenti e personalità della destra ebraica di salire proprio lì a pregare in occasione delle proprie ricorrenze è un comportamento inaccettabile. Non per cedere a un ricatto, ma per una semplice questione di giustizia. È quanto avevano provato già fare qualche settimane fa i capi delle Chiese di Gerusalemme con il loro appello al rispetto dello status quo sulla Spianata, che rilanciamo qui sotto. Parole ancora una volta cadute nel vuoto. Ma che restano più attuali che mai.

Leggi qui l’appello diffuso dai capi delle Chiese di Gerusalemme il 21 settembre scorso.

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