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Il rabbino Richetti su Nostra aetate e mondo ebraico

Terrasanta.net
28 ottobre 2015
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Il rabbino Richetti su <i>Nostra aetate</i> e mondo ebraico
Il rabbino Elia Enrico Richetti nella sua casa milanese.

Il numero di settembre-ottobre 2015 del bimestrale Terrasanta contiene un dossier di 16 pagine dedicato alla dichiarazione conciliare Nostra aetate. In vista di quall'ampio servizio abbiamo incontrato, a Milano, rav Elia E. Richetti. Vogliamo proporvi qui una versione più ampia dell'intervista al rabbino, registrata nel luglio scorso.


Il numero di settembre-ottobre 2015 del bimestrale Terrasanta contiene un dossier di 16 pagine dedicato alla dichiarazione conciliare Nostra aetate. In vista di quall’ampio servizio abbiamo incontrato, a Milano, rav Elia E. Richetti. Di seguito vi proponiamo una versione più ampia dell’intervista al rabbino, registrata nel luglio scorso.

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Elia Enrico Richetti è stato rabbino capo di Trieste (dal 1979 al 1989) e di Venezia (dal 2001 al 2010). Per molti anni ha rivestito il ruolo di segretario, tesoriere e, infine, presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia. Oggi è rabbino di una delle numerose sinagoghe di Milano ed è membro del Tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia.

Aveva 15 anni quando la Nostra aetate fu promulgata, nel 1965. Benché fosse un ragazzo, insieme alla sua famiglia seguì con interesse le novità che emergevano dal Concilio. Un po’ per la sensibilità di suo padre Giorgio che, grazie all’impegno nella Lega italiana per i diritti dell’Uomo, era diventato buon amico di un missionario cattolico. Un po’ anche per il ruolo ricoperto dal nonno materno, rav Ermanno Friedenthal, all’epoca rabbino capo di Milano e coetaneo di papa Giovanni XXIII, il quale, a sorpresa, nel 1961, pur non conoscendo il rabbino di persona, gli aveva mandato un telegramma di buon compleanno dal Vaticano, «da ottuagenario a ottuagenario».

Rav Richetti, lei era giovanissimo quando la Nostra aetate fu promulgata. Immaginiamo che avesse tutt’altre occupazioni e pensieri all’epoca…
È vero, avevo 15 anni, ma seguivo… Tra l’altro in quell’anno avevo cominciato a collaborare con la Lega italiana per i diritti dell’Uomo. Mio padre ne era partecipe e anche io ero abbastanza attivo. La questione del concilio ecumenico mi interessava anche per la discussione sulla preghiera in lingua locale e sul possibile, o non possibile, parallelismo con il mondo ebraico. Inoltre proprio per il tema del dialogo, che era abbastanza nuovo.

Dunque qual era il contesto ebraico nel quale giunse la Nostra aetate?
Diciamo che c’era una certa attesa. Si sapeva che il cardinale Augustin Bea (1881-1968, biblista gesuita tedesco, pioniere del dialogo con gli ebrei e tra i protagonisti dell’assise conciliare, anche nella veste di presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani – ndr) era molto attivo nel cercare la strada per provare ad avviare un discorso serio in quella direzione. Bea aveva avuto contatti con il mondo ebraico sia italiano che internazionale, penso in modo particolare alla Società dei B’nai Berith, che è un ente internazionale molto attivo nella difesa dell’ebraismo, anche a livello di beneficienza eccetera. Quindi l’attesa c’era. Si sapeva che stavano per venire fuori novità importanti.

Si cita spesso l’ebreo Jules Isaac tra i protagonisti di questo riavvicinamento…
È stato il primo. Qui a Milano in quegli stessi anni l’arcivescovo, il cardinale Giovanni Battista Montini, aveva già qualche contatto – non a livello di studi biblici, ma a livello istituzionale – con la comunità ebraica cittadina, in particolare con il presidente Astorre Mayer, il quale parlava con toni entusiastici del cardinale. Milano anche allora fu antesignana del dialogo. Un dialogo intensificatosi negli ultimi decenni, in modo particolare dal cardinale Carlo Maria Martini in poi.

La Nostra aetate segnò un mutamento di rotta e un riavvicinamento dei cattolici rispetto all’ebraismo. Anche all’interno del mondo ebraico si avvertiva il bisogno di cambiare qualche prospettiva riguardo ai cattolici?
Direi di no. Fu la Nostra aetate a suscitare un dibattito e una discussione all’interno del mondo ebraico riguardo a quale risposta dare. Le risposte non furono univoche, assolutamente. In modo particolare alcuni rabbini americani si espressero in maniera piuttosto fredda nei confronti del documento conciliare e del dialogo in generale, perché temevano che non ci fosse una giusta consapevolezza, da parte cattolica, di come doveva essere condotto il dialogo. Pensavano che sarebbe stato condotto quasi con l’intento di evangelizzazione degli ebrei. Cosa che di fatto dipese per molti anni dal modo in cui i singoli prelati o sacerdoti recepivano la cosa. Successivamente alcuni di quegli stessi rabbini che si erano espressi in maniera molto critica sono diventati attivi nell’ambito del dialogo. Sto pensando in modo particolare a un personaggio molto carismatico – rav Menachem Mendel Schneerson (1902-1994), capo del movimento Lubavitch, un sodalizio di chassidim, di mistici, che si era pronunciato in modo assai critico, ma che negli ultimi anni della sua vita fornì indicazioni su come condurre il dialogo con il mondo cristiano. Segno che aveva capito che nella Chiesa, o almeno in parte della Chiesa, c’è stato un cambiamento profondo.

Quelle indicazioni furono condivise anche da altri rabbini o valsero solo per il movimento Lubavitch?
Diciamo che il rabbinato italiano, essendo anche fisicamente vicino (al Vaticano), era sempre stato molto attento al tema. Alcune delle indicazioni del rebbe di Lubavitch erano già parte del modo di agire dei rabbini italiani. Più tardi anche il rabbinato israeliano si è mosso su quella linea.
Del resto so che anche prima della Nostra aetate c’erano stati dei contatti tra il rabbinato italiano e alcuni prelati, come pure con la Santa Sede. Al di là del famoso sonetto del Belli sulla morte del rabbino che era amico del Papa (Gregorio XVI), si sa che papa Achille Ratti (Pio XI) era stato in ottimi rapporti con il rabbino capo di Milano Alessandro da Fano (che fu rabbino del capoluogo lombardo dal 1892 al 1935 – ndr). Dopo il ’65 ci sono stati vari rabbini che hanno insegnato in università pontificie: tra questi il rabbino Nello Pavoncello (di venerata memoria) e rav Alberto Piattelli. Per il loro impegno nel dialogo come non citare il rabbino Elio Toaff (a Roma) e il rabbino Giuseppe Laras (a Milano)? Anche i rabbini delle varie comunità cittadine sono stati coinvolti. Io stesso a Venezia, e prima ancora a Trieste. Anche qui a Milano, su incarico del rabbino capo Laras, ho preso parte a varie iniziative.

La lettera e lo spirito della Nostra aetate sono stati recepiti come pienamente soddisfacenti dall’ebraismo?
Anche qui dipende, a seconda dei livelli e dei momenti. Ci è voluto molto tempo, ma oggi possiamo dire che lo spirito e anche la lettera della Nostra aetate sono ora patrimonio comune di buona parte, se non tutto, il sacerdozio cristiano. Qualche prete che pubblica concetti «pre-conciliari», per essere gentili, c’è ancora. D’altro canto per una rivoluzione epocale che vuole sconfiggere un insegnamento di sospetto ed odio durato tanti secoli non bastano cinquant’anni. È ancora giovane la Nostra aetate, da questo punto di vista. Una consapevolezza nuova si è però diffusa e ora arriva anche alla base, al singolo cattolico. Cosa che ancora pochi anni fa non era. Oggi chi usa espressioni legate al pregiudizio antigiudaico di vecchia marca ecclesiastica è ormai qualche persona avulsa dalla vita della Chiesa. Direi che tra i cristiani coscienti la Nostra aetate è penetrata.

Anche in Israele – dove i cristiani sono una minoranza e i rapporti numerici sono invertiti rispetto all’Europa – tra i rabbini c’è sensibilità per il dialogo?
Il Rabbinato centrale, che si occupa anche dei rapporti coi vari culti, è attento a questo aspetto e dove è possibile cerca un dialogo anche con il mondo cristiano. Tra le persone più attive c’è anche un mio maestro: l’attuale rabbino capo di Haifa Shear Yashuv Cohen. Come lui anche rav Ratzon Arusi e rav David Rosen, che sono emanazioni del rabbinato centrale con delega specifica al dialogo. Israel Meir Lau che è stato rabbino capo (ashkenazita) di Israele ed è attualmente rabbino capo di Tel Aviv, dice di non essere uomo di dialogo, ma è uno che di dialogo ne ha fatto e a un livello meraviglioso. Il suo interesse principale, come spiega lui stesso, resta sempre quello di occuparsi delle necessità degli ebrei. Tuttavia ha curato anche i rapporti di buon vicinato, e ha trasmesso insegnamenti di etica generale – ovviamente in un’ottica ebraica ma aperta al mondo – a un ottimo livello. Dunque a livello di rabbinato centrale israeliano c’è attenzione al dialogo, ma soprattutto sul piano istituzionale. Gli altri rabbini in Israele non se ne occupano: nelle loro sinagoghe, nei loro villaggi, nelle loro realtà non hanno la necessità. In ogni caso ci sono quelli che al dialogo ci credono e quelli che non ci credono. C’è di tutto.

Una delle questioni che la Nostra aetate pone è anche quella della collaborazione tra i credenti delle varie religioni per promuovere nella società i valori etici, la giustizia, i diritti umani… Anche su questo versante se ne è fatta di strada nei rapporti tra cattolici ed ebrei?
Direi proprio di sì ed è il risultato più evidente. Penso a incontri che puntano all’analisi di situazioni che richiedono risposte etiche: da un lato una certa consonanza di posizioni, ma quando non c’è si pone in essere un bellissimo esempio di rispetto delle differenze che a sua volta è un messaggio di grande insegnamento. Dove sta scritto che dividersi sia negativo? Anche dalle divisioni a volte si possono trarre vantaggi.

A proposito di divisioni… Uno dei punti su cui ancora ci sono divergenze a volte, è non tanto l’esistenza dello Stato di Israele (si è passati da un rifiuto di principio al suo riconoscimento anche diplomatico da parte della Santa Sede). Oggi si diverge semmai sulle sue politiche di carattere militare…
… O su talune scelte altrui (il riferimento implicito è al Vaticano – ndr): potrei citare il tipo di accoglienza o certe espressioni riservate al presidente (palestinese) Abu Mazen, che non ci sembrano corrispondere a una situazione reale… Anche su questi temi si può comunque dialogare. C’è la possibilità di farsi sentire e di ascoltare la voce dell’altro. Direi che abbiamo tutti imparato a usare le orecchie. Una volta era difficile parlare con il cuore, ora non più. Prima della Nostra aetate, da parte cristiana c’era spesso un sentimento di ostilità e da parte ebraica un senso di sospetto e di chiusura. Ora ci si apre vicendevolmente. Ci si accorge che l’altro non è che un altro me stesso.

Giampiero Sandionigi

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