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L’accordo di Vienna, visto da Teheran

Giuseppe Caffulli
15 luglio 2015
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L’accordo di Vienna, visto da Teheran
Da sinistra l'ayatollah Ali Khamenei e il presidente iraniano Hassan Rouhani. (foto Presidenza repubblica Iran)

Sulle prime pagine dei giornali iraniani campeggia la foto sorridente dei negoziatori di Vienna. Dopo una lunga, estenuante trattativa, finalmente è arrivato ieri, 14 luglio, l’annuncio della firma: l’Iran degli ayatollah rinuncia ad ogni sorta di attività nucleare per scopi militari in cambio della fine dell’embargo. Il Paese volta pagina con una svolta attesa.


Sulle prime pagine dei giornali iraniani campeggia la foto sorridente dei negoziatori di Vienna. Dopo una lunga, estenuante trattativa, finalmente è arrivato ieri, 14 luglio, l’annuncio della firma: l’Iran degli ayatollah rinuncia ad ogni sorta di attività nucleare per scopi militari in cambio della fine dell’embargo (anche finanziario) che da decenni strangola l’economia del Paese. Ironia della sorte, proprio l’«evento storico» che doveva costituire la vera, grande novità del Medio Oriente, è finito oscurato (almeno in Europa) dalla questione greca.

Previsti in un primo tempo entro il 30 giugno, i negoziati si sono protratti per altre due settimane più per ragioni di propaganda interna che per motivi sostanziali. Accanto ai temi del negoziato, non è passato giorno senza che i canali delle tivù di Stato lanciassero qualche strale contro gli Usa e l’Occidente. Giustificare infatti un accordo con gli Stati Uniti e le potenze europee dopo decenni di pubblica ostilità, è stato forse l’esercizio diplomatico più complicato. Non a caso la guida (religiosa) suprema Ali Khamenei e lo stesso capo dello Stato Hassan Rouhani hanno infiorato di dichiarazioni più o meno credibili i giorni del negoziato, parlando di «vittoria della rivoluzione» e «pagina storica per il Medio Oriente». Picchiando i pugni sul tavolo e bacchettando ora Israele, ora gli Usa («il grande Satana») su questioni certamente importanti per il Paese, ma ormai lontane nel tempo (come quella della fornitura di armi chimiche a Baghdad durante la guerra Iran-Iraq del 1980-1988). Che però si trattasse di un gioco delle parti era apparso chiaro da più di un segnale.

All’interno del Paese, l’esito dei negoziati non è stato mai considerato in bilico. Addirittura il prolungamento dei termini del negoziato di Vienna è stato salutato come un segnale positivo, necessario appunto per preparare al meglio la strada a un’intesa che i più davano per già scritta e approvata. Troppi gli interessi concomitanti, nel Medio Oriente di oggi, per pensare anche solo per un attimo a un fallimento.

Sul versante interno, l’Iran ha l’assoluta necessità di trovare una via d’uscita non traumatica all’epoca dei pasdaran, che hanno ancora un gran peso nel Paese, ma che vedono inevitabilmente venir meno la spinta ideale della rivoluzione khomeinista. In un Paese dove ogni anno oltre 200 mila giovani laureati emigrano, dove c’è gran voglia di libertà, dove c’è sete di cultura e grande interesse per ogni forma di umanesimo, sembra più utile governare un cambiamento (già in atto) piuttosto che subirlo. Bloccare ancora per troppo tempo le aspirazioni di un popolo erede di una grande storia potrebbe alla fine portare ad esiti drammatici.

C’è poi l’aspetto economico: il Paese è ricchissimo, non solo di petrolio. La fine dell’embargo può rappresentare l’inizio di una fase nuova anche dal punto di vista della crescita interna. Grande cinque volte l’Italia, l’Iran vede già la presenza di grandi compagnie straniere che operano in vari settori, dalla chimica all’edilizia. Una presenza aumentata vertiginosamente nei giorni a ridosso della fine dei negoziati, che hanno visto l’arrivo di delegazioni di imprenditori da ogni parte del mondo, desiderosi di trovare «un posto al sole» e di aprire un mercato assai promettente.

C’è anche l’aspetto strategico. La fine dell’isolamento dell’Iran costituisce una carta fondamentale anche nella lotta al terrorismo dello Stato islamico (Isis). I musulmani sciiti iraniani sono infatti gli alleati imprescindibili per chi voglia davvero contrastare l’ascesa dell’Isis (costituito da forze musulmane sunnite). Lo sanno gli Stati Uniti (anche se il blocco sunnita capeggiato dall’Arabia Saudita teme l’egemonia iraniana); lo sa anche il Califfato, che non a caso, proprio nei giorni di Vienna, non ha tralasciato di colpire alcune moschee sciite in Iraq, seminando morte.

Alla fine i negoziatori di Vienna, con la presenza dei rappresentanti dei governi occidentali, col segretario di Stato Usa John Kerry in testa, hanno certamente dovuto sciogliere molti nodi tecnici (e altri ce ne saranno da sciogliere in futuro). Ma la firma di Vienna è davvero la caduta di un muro. Come ha precisato ancora Rouhani, «dopo 12 anni abbiamo voltato pagina e insieme abbiamo deciso di scrivere un nuovo capitolo».

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