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La difficile integrazione degli ebrei etiopi nella società israeliana

Francesco Pistocchini
19 maggio 2015
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La difficile integrazione degli ebrei etiopi nella società israeliana
Manifestanti ebrei etiopi nelle strade di Tel Aviv il 18 maggio 2015. (foto Tomer Neuberg/Flash90)

Le proteste esplose a fine aprile a Gerusalemme e Tel Aviv, dopo la diffusione di un video che mostrava un’aggressione di poliziotti contro un militare israeliano di origine etiope, hanno riportato in primo piano un problema di razzismo nel Paese. Gli ebrei di colore sono da alcuni decenni una componente della società israeliana, tra mille difficoltà.


Le proteste esplose a fine aprile a Gerusalemme e Tel Aviv, dopo la diffusione di un video che mostrava un’aggressione di poliziotti contro un militare israeliano di origine etiope, hanno riportato in primo piano un problema di razzismo nel Paese.

A inizio maggio le manifestazioni di piazza a Tel Aviv si sono trasformate in scontri violenti e hanno indotto Benjamin Netanyahu a condannare pubblicamente l’aggressione contro il soldato, Damas Pakedeh, che il premier ha incontrato personalmente il 5 maggio insieme ai rappresentanti della comunità di origine etiope. Tuttavia le tensioni non sono del tutto sopite e ancora il 18 maggio a Tel Aviv si sono registrate proteste, benché da parte di un ristretto numero di manifestanti.

Gli ebrei di colore sono da alcuni decenni una componente della società israeliana. Beta Israel («della casa di Israele») è l’appellativo con cui vogliono essere chiamati, ma sono noti anche come falashà, parola che in amarico significa esiliati e ha un connotato dispregiativo. Provengono dal Nord dell’Etiopia e la loro antica appartenenza al popolo ebraico, che potrebbe risalire al tempo di re Salomone, è stata riconosciuta ufficialmente dal rabbinato israeliano solo nel 1975.

In due fasi gli ebrei etiopi hanno potuto emigrare verso Gerusalemme, abbandonando le difficili condizioni di vita, segnate da carestie e guerre. Nel 1984 con l’Operazione Mosè Israele prelevò in un ponte aereo ottomila beta israel dai campi in Sudan dove erano rifugiati. Altri 15mila arrivarono nel 1991 con l’Operazione Salomone, concordata con le stesse autorità di Addis Abeba. Oggi i beta israel sono più di 120 mila e la loro integrazione, nonostante molti progressi, resta difficile: discriminazioni avvengono sul lavoro e nell’assegnazione degli alloggi; i matrimoni con israeliani di altre provenienze restano un’eccezione.

La società di provenienza dei beta israel aveva caratteristiche ancestrali, molto diverse rispetto a quella israeliana. La storia degli ebrei etiopi, inoltre, non ha conosciuto il talmudismo e la loro tradizione si è tramandata di padre in figlio, invece che da madre in figlio, come prevede il Talmud. Dal punto di vista religioso alcune frizioni sono sorte a causa delle differenze nelle celebrazioni delle feste ebraiche.

Inseriti nel mercato del lavoro del nuovo Paese, molti uomini afro-israeliani hanno visto diminuire il loro status, mentre le donne, prima legate alla casa, hanno iniziato a lavorare e ad emanciparsi. Anche l’esercito è stato per i giovani (ragazze incluse) un veicolo di integrazione. Ma complessivamente gli sforzi compiuti dai governi per favorirne l’inserimento spesso non hanno dato i risultati sperati. Lo Stato di Israele, che si è formato nei decenni integrando ebrei di diversi Paesi e lingue, vive ancora le fratture tra cittadini ebrei d’Europa, mediorientali ed ex sovietici, oltre che arabo-israeliani e nuovi immigrati dal Sud del mondo. Sono aumentati negli ultimi anni gli atteggiamenti xenofobi verso l’immigrazione africana non ebraica che ha scelto Israele come destinazione o rotta di transito, atteggiamenti che manifestano lo stesso problema sociale.

I media riferiscono con frequenza di maltrattamenti delle forze dell’ordine contro gli israeliani di colore e l’ultimo episodio ha solo fatto esplodere un crescente malcontento che ha analogie con le proteste degli afroamericani contro la polizia a Ferguson e a Baltimora, negli Stati Uniti.

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