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Non è questione di lapidi

di Giorgio Bernardelli
24 aprile 2015
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Forse ricorderete Muhammad Abu Khdeir, il sedicenne palestinese di Gerusalemme Est che nel luglio scorso venne sequestrato e poi arso vivo da tre terroristi israeliani (attualmente sotto processo). Il nome di Muhammad è tornato sui giornali in questi giorni perché Israele, in occasione della giornata dei caduti voleva iscriverlo nome su una lapide che ricorda i soldati uccisi e le vittime civili degli attentati terroristici avvenuti nell'ultimo anno. La famiglia si è ribellata...


Non c’è pace neanche da morto per Muhammad Abu Khdeir. Il suo nome forse non lo ricordate, ma la sua storia sicuramente sì: Muhammad è il sedicenne palestinese di Gerusalemme Est che nel luglio scorso – dopo la diffusione della notizia dell’uccisione dei tre studenti ebrei Naftali Fraenkel, Gilad Shaer ed Eyal Yifrah – venne sequestrato e poi arso vivo in un bosco alla periferia di Gerusalemme da un ventinovenne ebreo e da due suoi compici minorenni (attualmente sotto processo in Israele).

Il nome di Muhammad è tornato sui giornali in questi giorni per via di un gesto compiuto da Israele: in occasione della giornata dei caduti (che si celebra alla vigilia dell’anniversario dell’indipendenza) ogni anno sul monte Herzl – il cimitero degli eroi a Gerusalemme, a due passi dallo Yad Vashem – vengono aggiunti a una lapide i nomi dei soldati uccisi e delle vittime civili negli attentati terroristici avvenuti nell’ultimo anno. Sull’onda della vergogna e delle polemiche suscitate in Israele dall’uccisione del giovane palestinese, già in luglio il governo aveva deciso di applicare per il caso di Muhammad Abu Khdeir tutte le procedure adottate per le vittime del terrorismo. Questo anche se il ragazzo – come palestinese di Gerusalemme Est – da un punto di vista giuridico non è considerato un cittadino israeliano.

Coerentemente con questa impostazione, dunque, anche il suo nome è stato inciso sulla lapide delle vittime in vista della cerimonia di quest’anno. Solo che il gesto è stato compiuto senza nemmeno avvertire la famiglia, che lo ha appreso dai giornali. E ha protestato contro questa decisione: «Stanno solo cercando di migliorare la loro immagine – ha dichiarato il padre di Muhammad -; è un gesto che non cambierà la natura razzista dell’occupazione israeliana». Inoltre il signor Abu Khdeir ha raccontato che le autorità di Gerusalemme non gli permettono di esporre fuori dalla sua casa – nel quartiere caldissimo di Shufat – una gigantografia in memoria di suo figlio. Anche per questo l’iscrizione nella lapide sul monte Herzl a lui è suonata come una beffa.

Non è stata, però, solo la famiglia palestinese a protestare per l’iniziativa: anche diverse associazioni della destra israeliana sono insorte per quella lapide in cui il nome di un palestinese viene accostato a quello delle vittime israeliane. «È morto per un atto di criminalità, non per terrorismo», hanno sostenuto con un evidente intento negazionista dal momento che il gesto è maturato nella frange più fanatiche del nazionalismo ebraico. Così alla fine il governo israeliano ha dato ragione a entrambi: il nome di Muhammad Abu Khdeir è stato cancellato dalla lapide, chiudendo così la questione.

Su una storia del genere – evidentemente – ciascuno può trovare appigli per puntare il dito contro l’altro: «Non sono contenti neanche quando viene riconosciuto un atto di terrorismo ai danni di un palestinese»; «A che cosa serve scrivere un nome su una lapide se poi si continua a lasciar mano libera ai coloni a Gerusalemme Est?».

Eppure questa storia probabilmente dice molto di più. Personalmente sono convinto che chi ha deciso di comprendere il nome di Muhammad in quella lapide lo abbia fatto senza secondi fini. Credo volesse essere davvero una mano tesa a partire da una vicenda che ha turbato molti in Israele. Ma il problema è che i gesti di pace hanno bisogno di un incontro vero con l’altro per essere accolti. Chiedono di mettersi in gioco a Shufat, ben prima che sul monte Herzl. Se avesse aiutato qualcuno a capire anche solo questo, persino una vicenda così amara forse non sarebbe stata inutile.

Clicca qui per leggere un articolo del New York Times che riassume la vicenda di questi giorni

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