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Che profilo avrà il nuovo Parlamento israeliano?

di Giorgio Bernardelli
12 marzo 2015
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Siamo ormai alla vigilia delle elezioni politiche in Israele, in programma martedì prossimo, 17 marzo. Il tema dominante delle analisi di questo voto resta il solito referendum: Benjamin Netanyahu sì oppure no? Gli ultimi sondaggi danno in lieve vantaggio la seconda opzione, con l’Unione sionista lievemente in vantaggio sul Likud. Le promesse e le sorprese dalla campagna elettorale.


Siamo ormai alla vigilia delle elezioni politiche in Israele, in programma martedì prossimo, 17 marzo. Il tema dominante delle analisi di questo voto resta il solito referendum: Benjamin Netanyahu sì oppure no? Gli ultimi sondaggi danno in lieve vantaggio la seconda opzione, con l’Unione sionista coalizione formata dai Laburisti di Herzog con il partito Hatnuah di Tzipi Livni – di poco avanti al Likud. Il distacco, però, è minimo, per cui restano aperti i giochi per determinare quale sarà il partito di maggioranza relativa.

L’esito finale di questa sfida non è in ogni caso l’unico elemento interessante nelle elezioni 2015 in Israele. Perché ci sono alcune indicazioni sulla politica israeliana che – comunque vada a finire – appaiono già chiare. E la prima è l’ulteriore accentuazione del tema della frammentazione: chiunque vinca tra Unione sionista e Likud si fermerà quasi certamente sotto la soglia del 20 per cento dei voti espressi. I sondaggi parlano di un partito di maggioranza relativa intorno ai 24/25 seggi sui 120 della Knesset; e se dovesse realmente finire così sarà la soglia più bassa nella storia del Parlamento israeliano. L’unico caso paragonabile è l’esito delle elezioni del 1999, quelle vinte da Ehud Barak con appena 26 seggi per il suo partito (ma allora in Israele c’era comunque l’elezione diretta del primo ministro). Questo per sottolineare che chi vincerà le elezioni poi per governare dovrà comunque fare i conti con un gioco complesso di alleanze.

Essendo, infatti, abbastanza remota la possibilità di una grande coalizione tra le due forze maggiori è molto probabile che diventino determinanti i voti dei gruppi politici minori; il che potrebbe tornare a fare la fortuna dei due partiti religiosi – il sefardita Shas e l’ashkenazita Giudaismo unito nella Torah – i grandi sconfitti del post-elezioni 2013, quando l’alleanza anomala tra il laico Yair Lapid e il paladino dei coloni Neftali Bennett li relegò all’opposizione. Difficilmente stavolta quello schema si ripeterà e quindi è probabile che i religiosi, con i loro preziosissimi seggi, rientrino in gioco (non necessariamente in un governo di destra: anche Rabin governava con lo Shas nella sua maggioranza).

Ma c’è soprattutto un’altra forza politica i cui voti dalla sera del 17 marzo diventeranno preziosissimi: è Kolanu, l’ennesimo nuovo partito israeliano, fondato da Moshe Khalon, un altro transfuga del Likud entrato in rotta di collisione con Netanyahu. Khalon è un politico che ha costruito la sua popolarità come paladino dei consumatori, affrontando quei temi economici di cui non si parla mai, ma che restano un nervo scoperto nella società israeliana: da ministro delle Comunicazioni fu l’artefice delle liberalizzazioni nella telefonia che portò molti benefici nelle tasche dell’israeliano medio. Le sue proposte politiche su tutti gli altri temi in agenda della politica israeliana sono un grosso punto di domanda, eppure con gli 8/10 seggi che i sondaggi gli assegnano c’è da stare certi che chiunque sarà il prossimo premier a Gerusalemme avrà Moshe Khalon nel suo governo.

C’è infine l’ultima grande novità, e cioè la Lista Araba Unitaria, che ha buone possibilità di diventare il terzo partito politico rappresentato alla Knesset. Se si guardasse solo ai numeri questa sarebbe la maggiore novità in assoluto di queste elezioni. Il problema – però – è che si tratta di un soggetto politico che andrà verificato alla prova dei fatti. Perché la Lista Araba Unitaria è nata – sostanzialmente – come via obbligata: i tre partiti che raccoglievano consensi tra gli arabi israeliani (Ta’al, Balad e il partito comunista israeliano Hadash) sono stati praticamente costretti a fondersi dalla nuova legge elettorale che ha alzato la soglia di sbarramento per entrare alla Knesset al 3,25 per cento dei voti. A volere fortemente questa novità è stato l’attuale ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, proprio in chiave anti-araba: sperava sostanzialmente che almeno uno dei partiti arabi sarebbe rimasto fuori dal parlamento. Gli è andata decisamente male (e ora è il suo partito – complici gli scandali giudiziari – a essere non poi così tanto sopra la fatidica soglia). Tra l’altro il fatto nuovo della lista unitaria – sempre secondo i sondaggi – sembra destinato a portare alle urne molti più arabi israeliani rispetto al passato, il che nell’urna potrebbe scombinare molte carte.

Quindi gli arabi peseranno di più nella prossima Knesset? Resta tutto da vedere. Perché la Lista Araba Unitaria rimane un mero cartello elettorale: in questi giorni si è già spaccata sull’idea di un’alleanza con il Meretz, la sinistra pacifista vicina al movimento di Peace Now; nel complicatissimo sistema elettorale israeliano un’alleanza sarebbe stata molto utile per la ripartizione dei resti nell’assegnazione dei seggi. Ma alla fine ha vinto l’ala che vuole mantenere la Lista Araba Unitaria fuori da ogni accordo con un partito «sionista». Siamo proprio sicuri, però, che gli arabi israeliani intenzionati a recarsi per la prima volta a votare vogliano ancora una forza politica solo di bandiera alla Knesset?

Clicca qui per accedere alla pagina del sito della Knesset con i risultati di tutte le elezioni parlamentari in Israele

Clicca qui per leggere l’articolo sui sondaggi che prevedono un aumento significativo dei votanti tra gli arabi israeliani

Clicca qui per leggere l’articolo di Al Monitor sulla mancata alleanza della Lista Unitaria araba con il Meretz

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