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I 21 copti uccisi in Libia: le famiglie non cedono all’odio

di Elisa Ferrero
23 febbraio 2015
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La barbara decapitazione di ventun egiziani copti per mano dello Stato Islamico, in Libia, ha ovviamente scioccato l’Egitto molto più del resto del mondo. A quei ventun uomini è stato presto dato un nome. La stampa nazionale ha raccontato le loro storie e incontrato le famiglie in lutto. Tutti provenivano da al-Our, un villaggio del governatorato dell’Alto Egitto, dove la miseria è tale che molti preferiscono rischiare la vita come lavoratori emigrati nella pericolosa Libia.


La barbara decapitazione di ventun egiziani copti per mano dello Stato Islamico (noto anche con l’acronimo Isis o Isil, Stato islamico dell’Iraq e del Levante), in Libia, ha ovviamente scioccato l’Egitto molto più del resto del mondo.

A quei ventun uomini è stato presto dato un nome, si sono incontrate le loro famiglie, se ne sono raccontate le storie, riportando alla luce una triste realtà, conosciuta ma spesso rimossa. Provenivano tutti da al-Our, piccolo villaggio del governatorato di Minya nell’Alto Egitto. La maggior parte degli abitanti di questa zona sono cristiani copti che vivono di agricoltura, in condizioni di estrema povertà. Abitano in tuguri di argilla, sporchi e con poche stanze. Molti sono analfabeti, le donne portano il velo tradizionale delle zone rurali, le famiglie cercano di sbarcare il lunario e far studiare i figli tra mille tribolazioni. Solo queste misere condizioni di vita potevano spingere alcuni degli abitanti di al-Our a emigrare in Libia in cerca di lavoro, pur conoscendo i rischi a cui si sarebbero esposti, data la situazione in quel Paese. Consapevolezza che appare chiara dalle loro ultime telefonate ai parenti, nelle quali hanno raccontato che la sera stavano tappati in casa per paura di essere catturati o uccisi, e che non osavano tornare in Egitto per visitare le famiglie, perché il viaggio era troppo pericoloso. Restare in Egitto, però, avrebbe voluto dire morir di fame, perché lavoro, a casa, non ce n’era proprio. La Libia, invece, paese ricco di petrolio e facilmente raggiungibile, ha sempre avuto grande necessità e poca disponibilità di manodopera. Nonostante la guerra, dunque, la Libia è a tutt’oggi il paese più attraente per molti poveri egiziani in cerca di che vivere.

Il numero di egiziani in Libia, secondo stime ufficiali, oscillerebbe fra gli 800 e i 900 mila, mentre secondo altre stime non ufficiali questo numero sfiorerebbe il milione e mezzo. I problemi per i lavoratori egiziani in Libia, musulmani e cristiani, non sono iniziati solo di recente. È almeno dall’ottobre 2013 che si ha notizia di loro rapimenti e uccisioni da parte di milizie armate. Qualcuno ha ritenuto questi atti una forma di ritorsione mirata da parte delle milizie islamiste in seguito alla destituzione di Mohammed Morsi, avvenuta il 3 luglio 2013. Qualcun altro, invece, li ha interpretati come un modo per acquisire strumenti di contrattazione con i governi libico e egiziano. Questo è stato il caso, per esempio, di cinque diplomatici egiziani, sequestrati a Tripoli il 25 gennaio 2014, poi liberati in cambio della scarcerazione di un leader dei miliziani libici, detenuto in Egitto.

Dall’ottobre 2013 a oggi sono stati quasi un migliaio i lavoratori egiziani rapiti in Libia. Tuttavia, tra l’agosto e l’ottobre 2014, i copti hanno iniziato a essere le vittime privilegiate dei miliziani, segnalando un cambio di strategia allarmante. Il 31 ottobre 2014, le milizie di Derna hanno giurato fedeltà all’Isil e i rapimenti dei copti decapitati risalgono a pochi mesi dopo. Il video dell’Isil, del resto, non cita altre ragioni per l’esecuzione dei ventun copti, se non quella di essere cristiani, o per meglio dire «crociati», come è stato affermato, commettendo, oltretutto, un grave errore storico.

La nota di conforto, in tutta questa terribile storia, è l’atteggiamento delle famiglie delle vittime. Seppur immerse nel dolore, non hanno ceduto all’odio settario sul quale l’Isil e altri islamisti stanno soffiando. Non hanno reagito accusando tutti i musulmani di connivenza, o l’Islam di essere una religione violenta per natura. Anzi, i giornali hanno riportato le sorprendenti parole di perdono nei confronti degli assassini da parte di alcuni dei familiari degli uccisi. Questo, però, non è segno di ingenuità o semplicità di spirito. I familiari delle vittime, infatti, nonostante tutta la loro povertà e mancanza di istruzione, sono stati capaci di impugnare i loro diritti di cittadini nei confronti dello Stato, pretendendo, anche con piccole manifestazioni, che le autorità dessero loro le dovute informazioni sul destino dei loro cari e facessero tutto il possibile per riportarli a casa.

Alla fine, purtroppo, i ventun rapiti non sono tornati a casa e le famiglie riceveranno un risarcimento di 100 mila sterline egiziane (circa 11.500 euro) che permetterà loro di sopravvivere. Tuttavia, la dignità, la compostezza e la consapevolezza con cui queste persone hanno vissuto la loro tragedia, emblematica della tragedia dell’intera regione mediorientale, sono state una lezione per tutti.

La storia dei copti di al-Our ha ben mostrato, ancora una volta, che l’estremismo uccide meglio quando di mezzo c’è la miseria.

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