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Hotline, tra il rifiuto e l’accoglienza

Luca Balduzzi
15 febbraio 2015
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Hotline, tra il rifiuto e l’accoglienza
Profughi negli uffici di Hotline. L'immagine è tratta dal documentario della Landsmann presentato a Berlino.

La gestione del flusso degli immigrati che provengono dall’Africa non è una questione che interessa esclusivamente le coste dell’Italia e del Vecchio Continente. Lo sanno molto bene Sigal Rozen, gli altri dieci dipendenti e i volontari di Hotline for Refugees and Migrants organizzazione non governativa israeliana che offre assistenza a profughi e richiedenti asilo. Al loro lavoro la regista Silvina Lansdsmann ha dedicato un documentario, presentato al Berlino Film Festival 2015.


Quella della gestione del flusso degli immigrati che provengono dall’Africa non è una questione che interessa esclusivamente le coste dell’Italia e del Vecchio Continente.

Lo sanno molto bene Sigal Rozen, gli altri dieci dipendenti e i volontari di Hotline for Refugees and Migrants (Linea diretta per profughi e migranti), l’organizzazione non governativa israeliana, con sede a Tel Aviv, che offre assistenza agli immigrati per la compilazione della modulistica per la richiesta del permesso di soggiorno o ai rifugiati per quella dell’asilo politico nel Paese.

Molto spesso le mobilitazioni pubbliche dell’ong vengono accompagnate da critiche e insulti, che in più di una occasione rischiano di degenerare addirittura in minacce di violenze fisiche.

A rendere ulteriormente complicato il lavoro di Hotline, però, non contribuisce unicamente il profondo scetticismo degli israeliani. Ci si scontra anche con una legislazione nazionale particolarmente rigida su questo argomento, in particolare sotto il profilo delle condizioni per l’accoglienza dei migranti, che spesso finiscono richiusi in remoti campi di raccolta, come Ktzi’ot o Saharonim, nel deserto del Neghev.

Parlano chiaro le storie e i numeri sul fenomeno raccontati nel documentario Hotline, della regista Silvina Landsmann, presentato nei giorni scorsi nella sezione “Forum” del 65° Festival internazionale del film di Berlino. Sono 57 mila gli immigrati detenuti in attesa di essere identificati, e a cui il ministero dell’Interno israeliano, denuncia la ong, sembrerebbe impedire di presentare la richiesta di asilo. Dall’entrata in vigore della Convenzione di Ginevra, il 28 luglio del 1951, Israele ha concesso asilo solamente a 157 persone (nei tre anni fra il 2009 e il 2012, soltanto ad una). Infine, una nuova legge in discussione sta cercando di innalzare il periodo di detenzione dei migranti ad oltre tre anni, e tentando allo stesso tempo di invogliare gli immigrati già «integrati» ad abbandonare il paese, pagando loro il biglietto aereo per il viaggio di ritorno ed offrendogli la possibilità di portare con sè tutti i soldi che hanno eventualmente guadagnato («la gente va dove ci sono i soldi», riflette un parlamentare della Knesset).

Un tempo le vittime del traffico di essere umani erano le donne dell’ex Unione sovietica, successivamente costrette a prostituirsi. In questi ultimi anni sono principalmente migranti che arrivano dall’Eritrea e dal Sudan, ma non mancano storie dal Chad, dal Darfur, dall’Etiopia, dal Ghana e dalla Guinea. C’è un uomo della Costa d’Avorio che desidererebbe riportare a casa il corpo della moglie, morta durante il viaggio, e che lui non ha nemmeno avuto la possibilità di vedere prima della sepoltura, perchè era stato imprigionato. C’è una ragazza di 23 anni del Mali, rimasta vedova e con una bambina di otto mesi, nata in prigione, da accudire.

Secondo le stime di Hotline, poi, il 20 per cento di questi immigrati ha subito torture nel corso del trasferimento, durante un periodo di prigionia nei campi della penisola del Sinai. Più difficile, per non dire impossibile, quantificare altre vittime, quelle che vanno ad alimentare il mercato nero degli organi.

Tutti spunti di riflessione non banali, raccontati da una regista anch’essa immigrata dall’Argentina in Israele (sebbene in altre condizioni) all’età di 11 anni. Il suo sguardo non cerca mai di nascondere nessun aspetto della realtà (con l’eccezione delle sedute della Corte suprema israeliane), o le immagini di prendere il sopravvento sulle storie.

Il suo invito agli israeliani ad approfondire e a lasciarsi interrogare da quanto sta succedendo ritorna, nella scena conclusiva del documentario, attraverso una citazione del libro dell’Esodo stampata su una maglietta di una giovane migrante: «Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto».

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