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Il Muro di separazione tra Israele e Palestina è una presenza oppressiva nel paesaggio della Terra Santa. Ma le sue superfici lisce e grige si sono riempite di colori.

L’arte appesa al Muro

Marie Marine Le Vaillant
2 settembre 2014
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L’arte appesa al Muro
Un esempio dei molti graffiti disegnati sul muro israeliano di separazione.

Gli israeliani lo definiscono «barriera di separazione». Per i palestinesi è il «muro della vergogna». Per Clémence e Laurent è un oggetto di studio: Clémence nel quadro del suo master di secondo livello in Geografia, Laurent in quanto appassionato di fotografia. Insieme, vogliono guardare e mostrare il muro sotto un altro punto di vista.

Quando fu costruito, nel 2002, i palestinesi rimasero scioccati da questo confine di cemento, alto 8 metri e lungo più di 700 chilometri, che lacerava la loro quotidianità. Alle manifestazioni e a impotenti bottiglie molotov seguirono i graffiti della rivolta. Poi gli slogan di indignazione hanno lasciato il posto all’arte. Esempi di arte di strada sono così spuntati su entrambi i lati di questa barriera tanto controversa. Al punto che alcuni tratti di muro, come nei dintorni di Betlemme, sono noti a livello mondiale e riconosciuti dalla stessa comunità artistica.

È proprio questa porzione di muro ad aver suscitato l’interesse dei due giovani francesi. Il primo, Laurent Davin, ha 26 anni ed è archeologo preistorico; dal 2010 si reca in Israele ogni anno nel quadro delle sue ricerche. Ma è stata la sua passione per la fotografia ad avergli suggerito un progetto dedicato al muro. Non aveva mai trovato tempo né basi per realizzarlo. Finché non ha incontrato Clémence Lehec, 22 anni, studente di geografia. È stata a Gerusalemme per la prima volta nel marzo del 2013 per scrivere una tesi sul rapporto tra l’arte e le frontiere, consacrando ampio spazio agli esempi di arte di strada sul muro di Betlemme. I due studenti, ospitati dal Centro di ricerca francese a Gerusalemme (Crfj), sede distaccata del Consiglio nazionale di ricerca, si sono incontrati e hanno condiviso idee e conoscenze, con lo scopo di realizzare un progetto concreto: preparare una serie di scatti e mettere online 1.525 m di muro, un’immensa tela di espressività in evoluzione (vedi box).

Tuttavia, Clémence e Laurent non vogliono inserirsi nel dibattito sui rapporti tra israeliani e palestinesi o sulla legittimità o meno di dipingere il muro. No, il loro obiettivo, come essi stessi lo descrivono, è «allargare la visibilità del muro nel tempo e nello spazio». In altre parole, fornire da una parte una visione precisa delle opere presenti sul muro a coloro che non vi hanno fisicamente accesso – per esempio, gli israeliani che non possono recarsi a Betlemme. Dall’altra creare un archivio dal quale in futuro potranno partire ulteriori ricerche sull’evoluzione dei graffiti. In quanto archeologo, Laurent si diverte a pensare di facilitare il compito ai suoi lontani successori.

Ma perché scegliere la porzione di muro che cinge l’area di Betlemme? Nella sua tesi, Clémence si è interessata anche a Hebron e a Gerusalemme Est, ricche di esempi di arte di strada. Ma a Betlemme il muro è sicuramente più rappresentativo di questa resistenza artistica contro tutte le barriere e i blocchi imposti dallo Stato di Israele.

Su questo muro ha assunto un rilievo del tutto inusuale lo slogan Make hummus not walls («Fate lo hummus – specialità gastronomica palestinese – non la guerra»), chiaro riferimento alla frase Make love not war («Fate l’amore, non fate la guerra») degli anni della guerra in Vietnam. Andando sul posto, la studentessa ha notato che chiunque poteva scrivere qualunque cosa sul muro, in pieno giorno e sotto gli occhi dei militari israeliani, senza che questi intervenissero. «Alcuni artisti fissano delle scale e rimangono più giorni per realizzare interi affreschi… E nessuno dice niente», racconta Clémence. E aggiunge: «Lasciando che i palestinesi scrivano ciò che vogliono, l’esercito israeliano concede loro uno spazio di espressione limitato e facilmente controllabile. A mio avviso, è un modo indiretto di tenere sotto controllo la resistenza». Incontrando la popolazione che abita nei dintorni del muro, Clémence e Laurent hanno potuto constatare anche che quest’ultimo era «al centro della vita di chi vi si deve confrontare ogni giorno». Sono rimasti sorpresi nello scoprire che l’arte di strada era diventata un’attrazione turistica, e il muro un monumento da visitare. «Oltre a una rete di tassisti più o meno illegali che propongono ai turisti di portarli a vedere il muro da vicino nei punti più strategici, i negozi situati nelle vicinanze hanno riprodotto alcune delle opere murali sugli oggetti più vari, dalle tazze ai portachiavi. Il muro ha trovato posto persino nei presepi, ed è diventato anche un supporto pubblicitario: i ristoranti non si fanno scrupoli ad attaccarvi i loro menu».

I due ideatori del progetto manifestano il desiderio di riprodurre la realtà del muro «senza filtri». Nelle fotografie si ritrovano tutte le scritte che vi campeggiavano nel marzo 2013, senza nessun ritocco. 

«Certo, si viene a creare una sorta di confusione – ammette Laurent –. All’inizio i messaggi dipinti sul muro rispecchiavano davvero i sentimenti di chi subiva la presenza di questa barriera… Ma da quando questa ha cominciato a essere nota, persone totalmente estranee alla causa palestinese vengono a Betlemme solamente per scrivere il proprio nome o lasciare una traccia del loro passaggio. Il significato simbolico in questo modo si perde, ma è anche questo il fascino dell’arte di strada: ognuno è libero di esprimere ciò che vuole. È per questo che ci tenevamo a immortalare tutte le scritte».

 



 

  Una galleria a cielo aperto 

Per riprodurre 1.525 metri di muro, sono state necessarie 919 fotografie (in media una foto ogni 1,65 m) che scorrono ad ogni click del mouse. Ma ci sono anche 1 ora e 43 minuti di audio per «cogliere l’atmosfera del muro» mentre si sfogliano le immagini. Sul campo sono bastati due giorni di lavoro, per concretizzare il progetto, invece, c’è voluto un intero anno. Oggi il sito è finalmente disponibile.

Laurent e Clémence lo hanno messo online il 20 marzo 2014. Il loro obiettivo è rendere il progetto il più realistico e «vivo» possibile. Non pensano infatti di fermarsi qui: hanno in mente di adattarlo all’utilizzo  di Kinect, un accessorio di ultima generazione in grado di captare il movimento umano senza bisogno di impugnare alcun controller. A presto, quindi, per una passeggiata virtuale lungo il muro.

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