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Il genocidio armeno come emblema del male nell’ultimo film di Fatih Akin

Luca Balduzzi
3 settembre 2014
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Il genocidio armeno come emblema del male nell’ultimo film di Fatih Akin
Una scena del film The Cut.

A cinque anni di distanza dalla grande ironia di Soul Kitchen, Fatih Akin cambia completamente registro, e fa ritorno alla Mostra del Cinema di Venezia con The Cut, il capitolo conclusivo della sua trilogia «sull’amore, la morte e il diavolo». Il regista di origini turche vuole riflettere sul male che si annida nell’animo di ogni uomo e lo fa narrando un capitolo decisamente controverso della storia della Turchia: il genocidio degli armeni nel 1915. L'opera non convince la critica.


A cinque anni di distanza dalla grande ironia di Soul Kitchen, Fatih Akin cambia completamente registro, e fa ritorno alla Mostra internazionale di Arte cinematografica di Venezia con The Cut, il capitolo conclusivo della sua personale trilogia «sull’amore, la morte e il diavolo», cominciata ormai dieci anni fa con La sposa turca, e proseguita con Ai confini del paradiso nel 2007.

L’intenzione del regista di origini turche è quella di riflettere sul male che si annida nell’animo di ogni uomo, e per farlo sceglie di raccontare un capitolo decisamente controverso della storia della Turchia: il genocidio degli armeni nel 1915.

Nazaret Manoogian è un giovane fabbro e padre di famiglia nel piccolo villaggio di Mardin, strappato a sua moglie e alle loro due bambine quando tutti i maschi che hanno compiuto i quindici anni vengono deportati nel campo di lavoro di Ras Al-Ayn.

Sopravvissuto all’eccidio solamente grazie al rimorso e alla generosità di uno degli aguzzini, ma ferito alla gola al punto di perdere completamente la voce (il cut, il taglio, che dà il titolo al film), l’uomo comincia una vera e propria odissea per ritrovare le sue figlie, uniche superstiti della sua famiglia. Il lungo viaggio lo porterà prima ad Aleppo, in Siria, e successivamente ad attraversare l’Oceano Atlantico in direzione di Cuba e degli Stati Uniti d’America.

Quando è stato annunciato il programma del Concorso, alla fine di luglio, il nuovo lavoro di Akin (precedentemente ritirato dal Festival di Cannes per «ragioni personali») era immediatamente apparso come uno fra i candidati più papabili ad aggiudicarsi il Leone d’Oro della settantunesima edizione della Mostra. La presentazione, al contrario, è stata accompagnata da non poche critiche.

Prima di tutto, per la scelta di non fare parlare il protagonista (Tahar Rahim, già ne Il profeta). Per Akin la motivazione è molto semplice e chiara, e viene esplicitata in una scena in cui Nazaret assiste alla proiezione di un film muto di Charlie Chaplin: le immagini valgono più di qualsiasi parola, ed è attraverso le immagini che il regista vuole rendere l’idea dell’enormità della tragedia armena.

Questo espediente, però, funziona decisamente poco dal punto di vista narrativo, e non aiuta a dare al film quel ritmo necessario sia per sviluppare in maniera convincente la sceneggiatura, con svolte che non siano forzate e scontate, sia per sorreggere le oltre due ore di durata. Un film con un’imponente coproduzione internazionale, e forse con l’ambizione di un dramma bellico alla David Lean o alla Anthony Minghella (il che spiegherebbe l’utilizzo della lingua inglese), ma a conti fatti un’occasione sprecata.

È facile immaginare che questo lungometraggio non mancherà di esporre Akin ad altre, ed ancora più feroci, critiche da parte di Ankara: le istituzioni turche, infatti, non hanno mai riconosciuto il genocidio degli armeni, né ammesso le responsabilità della propria nazione nel massacro.

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