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Resistere con la poesia

di Elisa Ferrero
21 luglio 2014
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L’identità araba è da sempre intimamente legata alla lingua, al potere e alla bellezza della parola. E la forma espressiva più alta di questa “parola” –  se si esclude la rivelazione coranica nella quale la parola è divenuta addirittura Parola – è sicuramente la poesia. Tuttavia, malgrado questa specificità, nel mondo arabo come altrove, la poesia ha visto diminuire drasticamente il proprio pubblico. Un gruppo di donne egiziane ha deciso di reagire, cercando vie originali per infondere nuova vita all’attenzione per la poesia.


L’identità araba è da sempre intimamente legata alla lingua, al potere e alla bellezza della parola. E la forma espressiva più alta di questa “parola” –  se si esclude la rivelazione coranica nella quale la parola è divenuta addirittura Parola – è sicuramente la poesia. Fiumi d’inchiostro sono stati scritti sulla relazione privilegiata che gli arabi intrattengono con la poesia, al cui ritmo si sono mosse anche le rivolte della primavera araba. Tuttavia, malgrado questa specificità, nel mondo arabo come altrove, la poesia ha visto diminuire drasticamente il proprio pubblico. Di fronte a tale crisi, un gruppo di donne egiziane ha deciso di reagire, cercando vie originali per infondere nuova vita all’attenzione per la poesia.

Nel novembre 2013, quattro poetesse egiziane – Abeer Abdel Aziz, Heba Essam, Maha Shehab e Nahed el Sayyed – hanno fondato un gruppo dal nome evocativo: Dhat li-l-Sha’irat, la cui traduzione letterale suona come «Un sé per le poetesse». L’ideatrice del progetto, Abeer Abdel Azeez, in un’intervista per Al-Ketaba del 6 luglio 2014, spiega che la parola Dhat «è il sé di ciascuna poetessa, così come emerge nella sua poesia e particolare esperienza, ma anche il sé della poesia che, tutte quante insieme come poetesse, ricercano. Infine, Dhat è un sostantivo femminile e il loro progetto coinvolge proprio delle poetesse».

L’idea centrale, che oggi attrae anche altre donne oltre alle quattro fondatrici, è rivitalizzare la poesia, nel caso specifico quella femminile, fondendola con altre arti: la musica, il racconto, lo spettacolo di marionette, la pittura, il disegno, ecc. Il gruppo propone poesie in prosa, in arabo classico e dialetto. Significativamente, Dhat li-l-Sha’irat ha debuttato al festival della ceramica, tenutosi dal 28 al 30 novembre 2013 nel Fayyoum, oasi a sud-ovest del Cairo, dove la lettura di poesie è stata accompagnata da vignette umoristiche e canti di donne. Dopo questa prima apparizione, il gruppo ha iniziato a spostarsi nelle varie province egiziane, per altre serate poetiche organizzate secondo questa nuova formula, così lontana dai canoni tradizionali.

In occasione del Ramadan, il gruppo ha inoltre creato una pagina Facebook dove, ogni domenica e giovedì, pubblica un video con una nuova poesia illustrata da immagini, come quelle dell’artista svedese Mattias Adolfsson. Il gruppo ha anche in mente, a partire dal 2014, di organizzare un grande evento poetico annuale.

La speranza di Dhat li-l-Sha’irat, con questa formula, è di raggiungere dapprima un pubblico specialistico, poi un pubblico generico più vasto, recuperando il gusto per la poesia. Così facendo, si recupererebbe anche un importante elemento dell’identità araba, dolorosamente in crisi in questo periodo. Può sembrare ingenuo aggrapparsi alla poesia nel momento in cui, ancora una volta, il Medio Oriente è attraversato da guerre cruente. Ma, forse, solo la poesia è in grado di esprimere adeguatamente il dolore che gli arabi provano in questi giorni, e anche la loro speranza che resiste nonostante tutto. I versi scritti il 9 luglio da Abeer Abdel Aziz, per esempio, parlano di un’altra vita che può emergere dalla morte:

 

Un’altra vita

Gli abbiam insegnato a duellare,
gli abbiam insegnato a non temer la morte,
gli abbiam insegnato a esser geloso di ciò che è suo,
e la forza della fede in qualsiasi cosa gli prescriviamo.
Per questo, morendo sui campi di battaglia,
ha tentato di morir ritto sulle sue gambe,
ha tentato di morir con la spada in mano.
Perché, dopo tutti quegli anni,
tutte quelle guerre,
tutte quelle tombe,
tutti quei poemi,
non gli insegniamo qualcos’altro?
Forse, se gli insegnassimo a esultare,
a sporgere il capo dai lazzi e dagli scherzi,
a saltellare e danzare al proprio ritmo,
forse, se lo allontanassimo
dall’ingegneria, dalla medicina, dal petrolio e dalla tecnologia,
ci sarebbero per lui un interesse nuovo e una salute nuova.

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