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Riflessioni israeliane su un triplice rapimento

Giorgio Bernardelli
30 giugno 2014
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Passano i giorni, ma Gil-Ad Shaer, Naftali Frenkel e Eyal Yifrach - i tre ragazzi israeliani sequestrati ormai più di due settimane fa nei Territori palestinesi - non saltano fuori. Dopo le massicce incursioni durate fino a qualche giorno fa, con Hebron e le altre città della Palestina setacciate casa per casa, adesso l’esercito israeliano passa alle misure tecnologiche. L’amara verità è che anche questo sequestro rischia di andare avanti a lungo...


Passano i giorni, ma Gil-Ad Shaer, Naftali Frenkel, e Eyal Yifrach – i tre ragazzi israeliani sequestrati ormai più di due settimane fa nei Territori palestinesi – non saltano fuori. Dopo le massicce incursioni durate fino a qualche giorno fa, con Hebron e le altre città della Palestina setacciate casa per casa senza troppi riguardi, adesso l’esercito israeliano passa alle misure tecnologiche: i giornali dello Stato ebraico ci hanno fatto sapere che si stanno impiegando anche i droni per scovare il nascondiglio dove i tre ragazzi sarebbero tenuti prigionieri. Ma sembra molto un modo per poter dire che le ricerche vanno ancora avanti. L’amara verità è che – come capitato in molti casi analoghi – questo sequestro rischia di andare avanti a lungo.

Diventa allora interessante andare a leggere anche alcune riflessioni che – nell’opinione pubblica israeliana – provano a scavare un po’ più in profondità dentro a questo nuovo dramma. Ad esempio un commento pubblicato qualche giorno fa su Yediot Ahronot da Eytan Haber. In una sorta di lettera aperta ai genitori dei ragazzi dice due cose decisamente controcorrente: la prima è che forse farebbero bene a credere ad Hamas. Scrive Haber: «Nonostante un invito del genere sia in contraddizione con tutto ciò che avete sentito fino ad ora, e cioè che gli arabi sono dei gran bugiardi, l’esperienza di questi anni dice che molte volte raccontano la verità. E se Hamas dice di non sapere dove sono i rapiti, probabilmente – dico probabilmente – non lo sa sul serio. È assolutamente possibile che il rapimento sia stata un’iniziativa individuale di qualcuno che la sta facendo franca».

Ma Haber canta fuori dal coro, nei suoi consigli alle famiglie, anche quando invita a non ascoltare – in caso di trattativa per uno scambio con prigionieri palestinesi – le obiezioni di chi afferma che rimettendo in circolazione dei «terroristi» ci sarebbero altri rapimenti. «Se c’è una cosa che non manca ai terroristi è la manodopera – commenta -. Stiamo ancora oggi combattendo con i nipoti dei primi miliziani di Fatah degli anni Sessanta, e la fine di questa storia non è all’orizzonte».

Si tratta evidentemente di un’opinione tra le tante in Israele. Però segna quello che probabilmente è il passaggio alla seconda fase di questa brutta storia, la fase del realismo. E infatti l’articolo si conclude con l’invito alle famiglie a continuare a farsi sentire anche quando l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica si sposterà altrove. Che è poi esattamente quanto capitò nel caso del soldato Gilad Shalit, qualche anno fa.

Su un altro piano, ma altrettanto interessante, è un’altra riflessione sul rapimento dei ragazzi, che porta la firma di rav Alon Goshen Gottstein. L’autore è una delle personalità ebraiche più attive nel dialogo interreligioso, ma qui propone una riflessione tutta interna all’ebraismo. Si chiede infatti quale possa essere l’atteggiamento di un religioso di fronte a un dramma come questo. Ed indica con chiarezza una tentazione: quella di considerare questo tipo di episodi come il risultato di una maledizione. Cita in particolare tre prese di posizione in questo senso avanzate da esponenti religiosi (tra cui addirittura quella di un altro rabbino che sostiene che il rapimento sia una risposta alla preghiera «idolatra» tenuta in Vaticano con Papa Francesco). Goshen Gottstein replica che dal punto di vista della Torah l’unica risposta autentica è quella dell’arvut, la mutua responsabilità, cioè l’atteggiamento opposto al puntare il dito. E si concretizza nei tre gesti religiosi per eccellenza: la preghiera, la penitenza e la carità. «Solo questa vera risposta può portare con sé un cambiamento – scrive rav Goshen Gottstein – perché aiuta noi stessi a cambiare, rendendoci degni della grazia e dell’aiuto che cerchiamo da Dio. L’unico che può rendere davvero religioso il nostro modo di avvicinarci a una tragedia come questa».

Clicca qui per leggere l’articolo di Eitan Haber

Clicca qui per leggere l’articolo di rav Alon Goshen Gottstein

 

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