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Maroun Lahham: «In Giordania una Chiesa vivace, fatta di famiglie solide»

Carlo Giorgi, inviato
4 aprile 2014
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Maroun Lahham: «In Giordania una Chiesa vivace, fatta di famiglie solide»
L'arcivescovo Maroun Lahham (65 anni), vicario per la Giordania del patriarca latino di Gerusalemme.

«Ad Amman il Papa verrà certamente con il suo sorriso, la sua umiltà, la sua umanità. Nessuno può prevedere cosa dirà: ci farà le sue sorprese…». Così mons. Maroun Lahham, vicario per la Giordania del patriarca latino di Gerusalemme. L'arcivescovo traccia un profilo della Chiesa giordana: solidale e vivace anche in un contesto musulmano che non garantisce la piena libertà religiosa.


(Amman) – «Stiamo lavorando senza tregua per la visita di Papa Francesco: vuole incontrare poveri, disabili, malati, orfani, persone anziane. Farà un incontro con 400 di loro a Betania oltre il Giordano, sul luogo del battesimo di Gesù. E poi ci sarà una messa con 35 mila fedeli, nello stadio di Amman. Verrà certamente con il suo sorriso, la sua umiltà, la sua umanità. Nessuno può prevedere cosa dirà: ci farà le sue sorprese…».

L’arcivescovo Maroun Lahham, vicario per la Giordania del patriarca latino di Gerusalemme, attende il 24 maggio, giorno dell’arrivo del Papa in Giordania, con trepidazione.

Qui i cristiani sono una piccola minoranza: circa 220 mila su poco più di 6 milioni di abitanti, il 2,8-3 per cento della popolazione totale. Di questi 220 mila, gli ortodossi sono la metà. Dell’altra metà, circa l’80 per cento è cattolico, in maggioranza di rito latino (accanto ad alcune decine di migliaia di fedeli melchiti). La storia personale di monsignor Lahham coincide per molti aspetti con quella del suo popolo: in Giordania metà della popolazione, cristiani compresi, è di origine palestinese e discende dai profughi del 1948 e del ’67. La famiglia Lahham viene da Haifa, nell’odierno Stato di Israele. Quando, nella primavera del ’48 scoppia la prima guerra tra israeliani e arabi, la mamma del vescovo è al sesto mese di gravidanza. Poche settimane dopo, trovato rifugio oltre Giordano, nasce Maroun.

«I cristiani di Giordania sono una comunità piccola ma in crescita – spiega il vescovo –: un secolo fa, negli anni Venti, eravamo 15 mila; negli anni Cinquanta siamo diventati 150 mila; e oggi siamo più di 200 mila. Un numero che cresce in termini assoluti, pur diminuendo come valore percentuale, perché i nostri connazionali musulmani fanno più figli e crescono più rapidamente».

Qual è l’identikit della Chiesa cattolica in Giordania?
È una chiesa viva. La famiglia cristiana, ad esempio, è ancora solida, lontana dalla crisi che sta vivendo in Occidente: questa sera ad Amman incontro 59 coppie di giovani cristiani che si sposeranno presto; l’altra settimana a Madaba ho fatto un incontro simile con altre 15 coppie. Abbiamo il tribunale ecclesiastico, ovviamente; anche qui ci sono coppie in crisi. Ma il divorzio rimane un fatto abbastanza raro. E il modello tradizionale di famiglia resiste.

Ci sono vocazioni in Giordania?
L’unico seminario per i sacerdoti diocesani è quello di Beit Jala, in Palestina, di cui sono stato rettore per dodici anni. Sui 32 seminaristi che oggi lo frequentano l’80 per cento viene proprio dalla Giordania. Questo capita, in effetti, perché tre quarti dei fedeli del patriarcato latino vivono in Giordania e qui abbiamo le parrocchie più vive e popolose. Le vocazioni femminili, invece, sono meno numerose.

Com’è la vita delle parrocchie?
Molto vivace, con gruppi e movimenti, ben 25, per cui abbiamo istituito un consiglio dei laici. Ci sono  neocatecumenali, focolarini, Comunione e Liberazione… Abbiamo gli scout, circa 3 mila ragazzi; l’Azione Cattolica: 4 mila giovani. La Caritas: 220 impiegati e 1.300 volontari dal nord al sud del Paese. In occasione della crisi siriana, la Caritas ha fatto così tanto e bene che il ministro degli Affari sociali ha espresso il desiderio di conferirle un’onorificenza. I centri Caritas distribuiscono vestiti, coperte, stufe… sono molto rispettati, lavorano con professionalità e attenzione cristiana. I profughi siriani sono in gran parte musulmani, ma dicono: qui ci sentiamo rispettati, c’è una sedia per chi aspetta, un turno, le persone ti sorridono… Tra gli altri gruppi ecclesiali non voglio dimenticare la Legio Mariae e il segretariato generale per le giovani coppie: più di 200, che si riuniscono in gruppi, ogni settimana, leggono il Vangelo e condividono la cena. C’è anche un segretariato generale per i chierichetti, che sono centinaia.

Come ha influito la crisi siriana sui cristiani di Giordania?
Come sul resto dei giordani: la Giordania è un Paese povero, non ha infrastrutture, siamo il quarto Paese più povero al mondo in fatto di risorse idriche. Solo dare da bere ad un milione di persone in più, tanti sono i siriani da noi, è un grande problema. Quelli venuti qui sono i siriani più bisognosi, quelli del Sud della Siria. Sono disposti a lavorare per un salario più basso del normale, in nero; così molti giordani vengono licenziati a favore dei lavoratori siriani. Questo crea tensione sociale. I giordani dicono: ci rubano il lavoro. La Chiesa fa di tutto per aiutare: abbiamo 24 scuole diocesane; le scuole del Nord del Paese aprono nel pomeriggio per i ragazzi siriani, in gran parte musulmani, per consentire loro di non perdere l’anno scolastico…

In Libano e Palestina i cristiani emigrano in Occidente a causa della guerra. Capita anche qui?
La tentazione c’è, qualcuno decide di partire, ma non è un fenomeno, un’emorragia come altrove. Il fatto è che la Giordania è un Paese stabile e sicuro. La polizia è forte, l’esercito è forte. E dunque il Paese vive tranquillo.

Nella Evangelii Gaudium Papa Francesco invita i cristiani non solo ad aprire le porte, ma ad uscire per annunciare il Vangelo. È possibile in Giordania questo tipo di evangelizzazione?
No. In Giordania abbiamo una libertà di culto, ma non una vera e propria libertà religiosa. Le conversioni sono rarissime, io stesso ne conosco due o tre. Sono fatte di nascosto. Rimanere nel segreto, se uno si converte, è dura. La fede qui è un fenomeno sociale più che personale. Quindi se cambi fede cambi pure famiglia, società, persone di riferimento… Noi non battezziamo coloro che desiderano la conversione, li mandiamo in Libano o in Europa. In Giordania è possibile, però, il dialogo con l’Islam, che facciamo in tre modi: il dialogo di vita, il dialogo intellettuale e il dialogo spirituale. Il dialogo di vita avviene ad esempio nelle scuole cattoliche, dove metà degli studenti sono musulmani: i ragazzi crescono insieme, si conoscono, si rispettano, diventano amici. Poi c’è il dialogo intellettuale, quello delle conferenze e degli studiosi: è un dialogo importante perché ti permette di scambiare idee, anche se generalmente si ferma ai complimenti reciproci… Talvolta, però, queste conferenze sono un bene perché puoi dire come stanno le cose. L’altro giorno, ad esempio, ho partecipato a una conferenza a Roma dove un musulmano ha detto: «L’Islam è molto aperto, noi rispettiamo i cristiani, possiamo pure sposare le ragazze cristiane». … «Aspetta! – gli ho replicato io – È vero che tu, musulmano, puoi sposare mia figlia, cristiana; ma per l’Islam tua figlia, musulmana, non può sposare mio figlio che è cristiano… Perché ci sia giustizia, deve essere possibile l’una e l’altra cosa». Gliel’ho potuto dire perché il contesto della conferenza mi garantiva una certa libertà. Infine c’è il dialogo spirituale che è il più bello perché tu parli della tua esperienza con Dio, dialogo della preghiera e della spiritualità. Qui in Giordania conosco qualche sceicco musulmano del quale direi che gli manca solo il battesimo…

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Ernesto Borghi

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