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Quando le colombe piangono

di Giuseppe Caffulli
29 novembre 2013
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Nel documentario Dove’s Cry («Il pianto della colomba»), presentato al Film festival di New York a metà novembre, la storia di Hadeel, 27 anni, insegnante, palestinese e israeliana. La macchina da presa segue Hadeel durante tutto un anno scolastico e mette nudo le gioie e le fatiche di chi, alla fine, non riesce a sentirsi a casa nel Paese dove è nata.


Hadeel ha 27 anni. È una cittadina palestinese dello Stato d’Israele. Veste il velo, come impone la tradizione musulmana, e insegna in una scuola elementare frequentata da ebrei. La sua storia è raccontata nel documentario di Ganit Ilouz (Dove’s Cry, Il pianto della colomba) presentato al Film festival di New York a metà novembre. La macchina da presa segue Hadeel durante tutto un anno scolastico e mette nudo le gioie e le fatiche di chi, alla fine, non riesce a sentirsi a casa nel Paese dove è nata.

In Israele, a guardar bene la realtà, il tema dell’interculturalità appare spesso una chimera. E le barriere che si levano tra la componente araba e quella ebraica sono difficili da scalfire.

Hadeel, con tutta la buona volontà di cui è capace, ci prova. Ma vive sulla sua pelle una serie di cocenti contraddizioni, che derivano anche dalla sua cultura di appartenenza. È donna, è musulmana, è single (fatto piuttosto sconveniente per l’Islam tradizionale), lavora in un contesto ebraico. Vive a Wadi Ara, nel distretto di Haifa, una cittadina abitata prevalentemente da arabi-israeliani. Ma ogni giorno si reca ad insegnare a Hod Hasharon, vicino a Tel Aviv per insegnare ai ragazzi ebrei dell’ultimo anno delle elementari lingua e cultura araba. Hadeel è accettata dai colleghi insegnanti ebrei, è amata dagli alunni. Ma alla fine traspare sempre un pregiudizio di fondo verso la cultura araba, che è la «carta d’identità» del nemico.

Ci sono momenti, nell’arco dell’anno scolastico, in cui le dinamiche dell’esclusione sono più evidenti. La Giornata della Memoria dell’Olocausto, per esempio. La sofferenza del popolo ebraico è inenarrabile, ma non lascia spazio – riflette Hadeel – alle sofferenze altrui. Lo stesso inno nazionale dello Stato d’Israele, alla fine, è strumento d’esclusione, invece che d’unità, perché in esso non possono riconoscersi i cittadini non ebrei. Per non parlare della narrazione unilaterale del sionismo, che non sembra capace di offrire percorsi di riconciliazione tra le componenti della società israeliana.

La scena finale del documentario risulta particolarmente eloquente: Hadeel partecipa alla festa di fine anno della scuola. All’improvviso suona la sirena dell’allarme aereo. Tutti escono in fretta e furia guadagnando il rifugio. Hadeel rimane sola e nessuno sembra preoccuparsi di lei. Mentre prosegue l’allarme, la donna prende lentamente la borsa ed esce dalla classe. In fondo – avverte – proprio questo significa non appartenere veramente al luogo dove si è nati. 

(Twitter: @caffulli)

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