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Cristiani e musulmani, in Egitto di nuovo una sola mano

di Elisa Ferrero
26 agosto 2013
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Si sente spesso dire, a proposito dell’Egitto di oggi, che è una nazione spaccata in due, da una parte i Fratelli Musulmani e i loro alleati (principalmente islamisti di altri gruppi), e dall’altra i «liberali» e i militari. In realtà, il Paese sembra aver recuperato una grande compattezza nel respingere il progetto di Stato e di società, del quale la Fratellanza Musulmana si è fatta portatrice nei mesi passati...


Si sente spesso dire, a proposito dell’Egitto di oggi, che è una nazione spaccata in due, da una parte i Fratelli Musulmani e i loro alleati (principalmente islamisti di altri gruppi), e dall’altra i «liberali» e i militari. In realtà, il Paese sembra aver recuperato una grande compattezza nel respingere il progetto di Stato e di società, del quale la Fratellanza Musulmana si è fatta portatrice nei mesi passati. Sebbene si stia già profilando all’orizzonte la prevedibile battaglia (sulla Costituzione, tanto per cominciare) fra le forze realmente rivoluzionarie emerse con la rivolta del 25 gennaio 2011 e l’establishment militar-poliziesco-mubarakiano, la maggioranza degli egiziani pare ormai d’accordo sulla pericolosità dei Fratelli Musulmani e sulla necessità di combatterli. Cambiano soltanto il modo e i mezzi proposti a tale scopo: attraverso una dura repressione e l’esclusione totale dalla vita pubblica per alcuni, attraverso l’azione politica, sociale e culturale per altri.

Dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak, i Fratelli Musulmani avevano suscitato speranze. Avevano rimosso dalla loro piattaforma politica il divieto, per copti e donne, di accedere alla massima carica dello Stato, smorzando molto i toni discriminatori nei loro confronti. Avevano rassicurato che alle elezioni parlamentari del 2011 avrebbero presentato candidati solo per il 30 per cento dei seggi e che non avrebbero partecipato alle presidenziali. Queste promesse, come si sa, non sono state mantenute. Dopo l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza, nel 2012, le cose sono rapidamente precipitate. Il discorso dei Fratelli Musulmani, quello in inglese, a uso e consumo di Stati Uniti ed Europa, è rimasto moderato, tollerante, aperto, quasi «patinato». Il loro discorso in arabo, invece, è tornato a essere quello che era prima del 2011: settario, discriminatorio e verbalmente violento. Già nel dicembre 2012, con il Paese in rivolta contro Morsi a causa del suo Decreto costituzionale, con il quale blindava la Costituente e assumeva poteri dittatoriali, alcuni esponenti della leadership della Fratellanza avevano accusato i manifestanti di essere in maggioranza copti che cospiravano contro il governo islamico. Gli altri, gli oppositori non cristiani, erano certamente atei, musulmani miscredenti, omosessuali che chiedevano l’introduzione delle nozze gay, agenti al soldo di potenze straniere e via dicendo.

Così, il presidente di tutti gli egiziani è lentamente diventato il primo presidente islamico d’Egitto, da difendere a tutti i costi dagli attacchi di cristiani e miscredenti. Quando sono iniziate le grandi manifestazioni del 30 giugno che l’hanno destituito, tutte le maschere erano già cadute. I pro-Morsi, ormai, gridavano apertamente Islamiyya, Islamiyya! («Stato islamico, Stato islamico!»), oppure lo scrivevano con lo spray sulle porte delle chiese. I predicatori e i leader islamisti, dal palco dei loro sit-in, tuonavano contro il papa copto e contro i cristiani traditori, che avevano osato ribellarsi al presidente islamico. «Incendiare i luoghi di culto è un crimine, ma la scelta da parte della Chiesa di far guerra all’Islam e ai musulmani è un crimine ancora maggiore. A ogni azione corrisponde una reazione» – questo il commento (in arabo, naturalmente) della pagina Facebook del partito Libertà e Giustizia, sezione di Helwan, a proposito della vasta ondata di attacchi alle chiese e alle proprietà dei cristiani in tutto l’Egitto. Non stupisce, quindi, che per il prossimo 30 agosto siano state annunciate nuove proteste da parte dei pro-Morsi con il chiaro titolo di «rivoluzione islamica».

Tuttavia, l’operazione di dividere il Paese in musulmani (i Fratelli e i loro alleati) e copti/miscredenti non è riuscita. Cristiani e musulmani hanno ancora una volta serrato le fila, mostrando grande solidarietà. Il 26 luglio, ad esempio, per un giorno, i copti si sono uniti ai musulmani nel digiuno di Ramadan, mentre all’ora dell’iftar (il momento della rottura del digiuno), e per la prima volta nella storia egiziana, le campane hanno suonato all’unisono con le voci dei muezzin. Nelle varie piazze nelle quali erano assembrati gli oppositori di Morsi, i manifestanti musulmani, per nulla miscredenti, pregavano cinque volte al giorno, circondati dai cristiani. E quando la furia islamista, dopo il massacro dei pro-Morsi a Rabaa al Adawiya, il 14 agosto, si è abbattuta su chiese e copti, i musulmani sono accorsi in aiuto. Catene umane a protezione degli edifici cristiani, raccolte di fondi per la ricostruzione, offerte di ospitalità ai propri vicini di casa… E i copti sotto attacco non hanno risposto con la violenza, né con la stessa logica settaria degli estremisti islamici, bensì con stoicismo, pazienza e persino perdono, come raccontano le tante testimonianze.

Nessuna guerra civile, dunque. Gli islamisti si sono ritrovati soli. I cristiani egiziani, ben capaci di distinguere fra islamisti e musulmani, non sono caduti nell’errore di chi afferma che il fallimento della Fratellanza Musulmana provi l’incompatibilità fra Islam e democrazia (come se il primo coincidesse con un gruppo o una confraternita particolare), né sono caduti nel tranello dell’odio religioso. I musulmani egiziani, dal canto loro, hanno platealmente sconfessato gli islamisti che pretendevano di parlare in nome loro, anteponendo l’identità religiosa a quella egiziana.

Ora, tuttavia, resta il problema irrisolto di costruire una società realmente democratica, che sfugga sia alla morsa islamista sia alla stretta militare.

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