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Cinque telecamere per Bi’lin

Carlo Giorgi
2 luglio 2013
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Cinque telecamere per Bi’lin

Il documentario palestinese 5 Broken Cameras, candidato agli Oscar 2013, è un'opera nata quasi per caso, come ammette Emat Burnat, voce narrante del film e autore della quasi totalità delle immagini. Emat è un palestinese della cittadina di Bi'lin, nei Territori occupati, e racconta i cinque anni della protesta dei suoi concittadini a difesa della propria terra.


5 Broken Cameras, documentario palestinese candidato agli Oscar 2013, è un’opera nata quasi per caso, come ammette Emat Burnat, voce narrante del film e autore della quasi totalità delle immagini. Emat è un palestinese della cittadina di Bi’lin, nei Territori occupati. Succede che nel 2005 nasce Gibraeel, il suo quarto figlio. La gioia è così grande che Emat decide di acquistare una piccola videocamera con cui filmare i suoi primi giorni di vita e documentare la storia di questo ultimo nato.

Proprio negli stessi giorni succede però che Israele decide di erigere la famosa barriera di protezione (una grande rete metallica), a poche centinaia di metri dal villaggio. La barriera taglia le terre coltivate ad ulivi che appartengono da secoli ai contadini palestinesi. Durante i lavori di costruzione vengono estirpate molte piante e la barriera impedisce l’accesso dei contadini alle proprie terre. Nel frattempo Israele espropria una parte dei terreni al di là della rete e gli imponenti caseggiati di una colonia ebraica avanzano verso Bi’lin.

Tutto questo provoca, inevitabilmente, la reazione degli abitanti del villaggio; e induce Emat a utilizzare la sua videocamera anche per filmare le manifestazioni: un’attività, quella del video-operatore, che da amatoriale diventa mese dopo mese, professionale, occupandolo a tempo pieno. Emat scopre che filmare è la forma di protesta in cui più si ritrova: documentare il comportamento dei soldati israeliani, il lancio dei lacrimogeni, i colpi di fucile ad altezza d’uomo, gli arresti indiscriminati anche di bambini nel cuore della notte è un modo di testimoniare al mondo quel che sta succedendo, oltre ad essere una efficace forma di autodifesa.

Il documentario si snoda così nel tempo, e racconta i cinque anni della protesta di Bi’lin con le immagini girate dalle cinque videocamere che Emat utilizza per filmare ogni cosa. Videocamere che vengono tutte, l’una dopo l’altra, inevitabilmente danneggiate e sostituite nel corso degli scontri con l’esercito. Videocamere con cui però Emat non rinuncia a filmare anche la vita quotidiana della sua famiglia: l’ansia crescente della moglie e i loro dialoghi; i compleanni di Gibraeel e le sue prime parole (alcune delle quali sono «esercito», «muro», «granata»…); soprattutto il precoce agghiacciante passaggio del bambino dall’infanzia all’età adulta («perché non uccidi i soldati israeliani, papà?», chiede il figlio a cinque anni. «Perché vuoi che uccida i soldati?» replica il padre; «Perché hanno ucciso Phil…», conclude Gibraeel).

Il film termina con un segno di speranza, le immagini dello smantellamento della rete da parte delle ruspe israeliane, in attuazione alla sentenza di un tribunale israeliano. Anche se poi, poco più in là, un nuovo muro di cemento armato è già stato costruito.

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