Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Il cuore non ha colore

di Giuseppe Caffulli
30 aprile 2013
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Giorni fa alla Cineteca di Gerusalemme è stato proiettato il documentario Ahim Balev («Fratelli di cuore»), una pellicola che da diversi mesi fa discutere. Tocca il tema del trapianto di organi e in particolare del cuore del giovane soldato ebreo Yaniv Pozoarik che finisce nel petto del cardiopatico palestinese Luary Saalem. Ma l'orizzonte s'allarga, ancora una volta, alla più ampia questione della convivenza tra diversi, ardua ma non impossibile.


Si intitola Ahim Balev («Fratelli di cuore»), e da diversi mesi fa discutere. Si tratta di un film documentario della regista ebrea francese Esther London che il 9 aprile scorso è stato proiettato alla Cineteca di Gerusalemme. Vi si racconta la storia di Yaniv Pozoarik, un soldato ebreo 19enne ucciso accidentalmente da un commilitone che stava maldestramente maneggiando la propria arma. Il suo cuore, trapiantato, ha salvato la vita di un palestinese. Particolare reale e sconvolgente: il trapiantato, Luary Saalem, inizia a chiamare i genitori del soldato, «mamma» e «papà». Nasce un rapporto complesso, tormentato, che fruga e mette a nudo le ferite profonde e mai rimarginate che affliggono i due popoli.

Alla proiezione del film ha fatto seguito una tavola rotonda sul tema della donazione di organi, con esperti di primo piano: il professor Jacob Lavee, cardiochirurgo, direttore del dipartimento per i trapianti dello Sheba Medical Centre di Tel Hashomer, il rabbino Avraham Walfish dell’Herzog College e del Jerusalem College di Gerusalemme, padre Michael Biju, professore di bioetica e direttore dello Studium Theologicum Salesianum di Gerusalemme.

Lo stesso dottor Lavee, che ha anche condotto in prima persona il trapianto, è tra i protagonisti del documentario. Di grande impatto emotivo la sua testimonianza: «Sono in piedi in sala operatoria. Mentre preparo il trapianto, c’è un momento in cui ho un cuore ebraico in una mano e un cuore arabo nell’altra. Mi blocco qualche istante e mi attraversa un pensiero:  non c’è alcuna differenza tra di loro».

Il documentario della London si colloca nella scia di un’altra opera di grande impatto emotivo, uscita qualche anno fa. Si tratta del film The heart of Jenin («Il cuore di Jenin», 2007), girato da una coppia di registi: Leon Geller, israeliano, e Marcus Vetter, tedesco di padre turco. Vi si racconta la storia (vera) di Ahmed Khatib, palestinese ucciso a 12 anni dai soldati israeliani a caccia di terroristi della Jihad. Stava giocando con una pistola giocattolo nel centro di Jenin, in Cisgiordania. I soldati israeliani lo scambiarono per un miliziano e gli spararono. I genitori decisero di autorizzare la donazione degli organi e grazie a questo gesto vennero salvati cinque bambini, alcuni ebrei. «Mio figlio è morto. Forse solo così potrà restituire ad altri la vita — disse allora la mamma Abla, poco più che trentenne —. Che siano arabi o ebrei, non importa».

Due anni dopo il padre di Ahmed, Ismail, meccanico del campo profughi di Jenin, 41 anni, avverte il desiderio di incontrare i piccoli che vivono grazie al sacrificio di suo figlio, per cercare in loro una traccia di quella vita spezzata. O solo per cercare di consolare il suo dolore mai sopito di padre. Il suo viaggio, che lo porta in ogni angolo del Paese, è un itinerario dentro le pieghe nascoste di una società che, spesso, neppure di fronte alla sofferenza riesce a trovare un alfabeto comune.

Entrano allora prepotentemente in scena le storie di Mohammed Kabua, figlio di beduini del deserto del Neghev, che da Ahmed ricevette un rene; della drusa Samah Gadban, che abita nel piccolo villaggio di Pekiin, nel Nord, e che prima di avere il cuore di Ahmed non si era praticamente mai alzata dal letto. E infine quella di Menuha, la piccola ebrea ortodossa che dal ragazzino palestinese ha ricevuto l’altro rene.
«Avrei preferito un donatore ebreo. Non lascerò mai che i miei figli abbiano amici arabi: potrebbero subirne la cattiva influenza», sibila il padre Yaakov Levinson, quando alla fine cede di fronte all’insistenza di Ismail per incontrare la sua famiglia. Sembra una chiusura totale, inappellabile. Ma anche Yaakov sa di aver ormai segnato la resa, perché il bene ricevuto gli impedirà di tornare ad essere quello di prima. Menhua chiude il film ridendo e spingendosi in altalena sul prato di casa, radiosa nei suoi 10 anni. A lei, piccola ebrea, come al giovane palestinese Luary, sta il potere di cambiare le cose. 

(Twitter: @caffulli)

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