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El Funoun, far cultura danzando

Emma Mancini
11 aprile 2013
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A Ramallah incontriamo i giovani ballerini della Compagnia di danza popolare palestinese El Funoun, organizzazione nata nel 1979 per tenere in vita l’arte, la musica e le danze tradizionali palestinesi. L'idea dei fondatori è di portare in scena il folklore tipico, mescolato alle espressioni artistiche contemporanee, per tener viva l'identità di un popolo.


(Ramallah) – La sede del Centro di arte popolare di Ramallah, in Cisgiordania, è quasi nascosta, all’ombra della grande moschea bianca El Ein del quartiere di Al Bireh. Oltre la porta di ingresso si schiude una palazzina a due piani, le pareti lungo le scale dipinte da disegni che raccontano la tradizione palestinese, i suoi vestiti, i suoi colori accesi.

Al secondo piano troviamo i giovani ballerini della Compagnia di danza popolare palestinese El Funoun, organizzazione no-profit nata nel 1979 per tenere in vita l’arte, la musica e le danze tradizionali palestinesi. Sono le quattro, il gruppo Bara’em – la compagnia dei più piccoli, 40 ragazzi tra i nove e i diciotto anni – si sta allenando. Provano i passi della più nota danza palestinese, la dabke. In tuta e scarpe da ginnastica, ragazzi e ragazze scherzano, ridono e poi tornano al lavoro.

Li avevamo visti esibirsi lo scorso 9 marzo, al Palazzo della Cultura di Ramallah. Un’ora e mezzo di spettacolo, intenso, allegro e profondo: sul palco i ballerini bambini e gli adulti, avvolti in vestiti lavorati a mano, tra veli di seta e kefiah. Ad accompagnarli, musiche tradizionali di atavica memoria: il suono dell’oud (strumento a corda della famiglia dei liuti – ndr) e il ritmo dei flauti sembrano arrivare dalle radici della terra di Palestina.

«Il nostro lavoro è solo per metà artistico – ci spiega Noora Baker, ex ballerina e ora maestra di El Funoun –. L’altra metà è attività politica e sociale. Se vieni qui solo per ballare, allora è meglio se ti cerchi un’altra compagnia. Da 34 anni, El Funoun è impegnato nella ricerca e l’espressione dell’identità palestinese attraverso l’arte, ma anche in un concreto e attivo lavoro di cambiamento della società in cui viviamo».

El Funoun (in arabo «arte») è stato fondato da un gruppo di giovani e intraprendenti artisti con l’obiettivo di portare in scena il folklore palestinese, mescolato alle espressioni artistiche contemporanee: un mix di tradizione e novità. Oggi, il corpo di danza conta 25 ballerini adulti e 40 adolescenti attorniati da 120 membri e volontari. Numerose le produzioni fin qui portate in scena, non solo in Palestina, ma in tutto il mondo: El Funoun si è esibito in festival europei, dall’Italia a Portogallo, dalla Germania alla Gran Bretagna, fino a varcare l’oceano e raggiungere gli Stati Uniti.

«El Funoun è nato come strumento di lotta e resistenza nonviolenta all’occupazione israeliana, prima ancora che come mera espressione artistica – continua Noora –. Appena nata l’organizzazione entro nel mirino delle autorità israeliane che arrestarono molti dei suoi componenti. La situazione è peggiorata durante la prima intifada (la rivolta palestinese tra il 1987 e il 1993 – ndr), quando per legge nei Territori Occupati era vietato mettere in scena o mostrare simboli dell’identità culturale della Palestina. Erano vietate le bandiere, e anche le danze tradizionali. Una vera e propria repressione della nostra identità».

Una repressione che El Funoun è riuscito a svicolare, continuando a proporre nuovi spettacoli e aprendo le porte ai più giovani: nel 1987 nasce Bara’em, la compagnia dei più giovani. «Oggi non subiamo più una repressione tanto diretta – aggiunge la Baker –. Ma con la costruzione del Muro di separazione non possiamo più esibirci a Gerusalemme, a Nazaret o ad Haifa. Ci hanno diviso in enclavi e ci hanno dato carte d’identità diverse. Per questo il lavoro di El Funoun è sempre più importante: mantenere viva la cultura palestinese significa affermare che il nostro popolo esiste, che è uno e che ha diritto a diventare una nazione. Che tu viva a Gaza, a Gerusalemme, o in Cisgiordania, resti palestinese. Classificandoci, Israele è riuscito nell’intento di separarci psicologicamente e fisicamente. Eppure la lingua, la cultura, il cibo, l’arte, la musica sono gli stessi. Per questo riusciamo ancora a restare uniti».

Dietro i passi di danza compare l’arte della tradizione. Perché, come ci spiega Noora, nessuno è qui solo per danzare: il 50 per cento dell’attività di El Funoun è sociale. Obiettivo, creare una società nuova, composta di individui nuovi che insieme formino una comunità virtuosa. Da qui la decisione di spostare in avanti i limiti posti dalla stessa società palestinese: «Nei nostri spettacoli, uomini e donne ballano insieme, fianco a fianco e mano nella mano – continua Noora –. È stato un processo lento, ma continuo, ed oggi è un dato di fatto. El Funoun lavora su due livelli: quello politico, attraverso la presa di coscienza e la lotta all’occupazione, e quello sociale, volto a trasformare dal di dentro e senza forzature la cultura ancora troppo maschilista della società».

Agli spettacoli, El Funoun aggiunge collaborazioni con compagnie straniere, come il progetto Folk Dance and Hip-hop portato avanti insieme alla compagnia franco-algerina Accrorap e Other languages, realizzato con il belga Les Ballets C de la B. Poi c’è il lavoro di addestramento e formazione nei campi profughi e nei villaggi. Dal 2006 ad oggi, la troupe palestinese ha avviato progetti di danza in quattro villaggi palestinesi, Saffa, Beit Illu, Beit Reema e Bil’in. «Come El Funoun, una volta creato un nuovo gruppo di danza, diamo sostegno attraverso finanziamenti, organizzazione di eventi e formazione».

A sostenere l’intera compagnia ci sono i fondi della cooperazione svedese (Sida). Per il resto El Funoun si autofinanzia con la vendita di dvd, cd e biglietti d’ingresso agli spettacoli. Tutti gli insegnanti e i ballerini sono volontari.

L’allenamento per oggi è terminato. Ci fermiamo a parlare con i giovani, sudati e allegri. «Amo moltissimo questa compagnia – ci dice Aya, 21 anni, di Gerusalemme –. Ho iniziato con El Funoun 10 anni fa, da bambina. Prima facevo danza classica, come mia madre. Poi un giorno nel 2002, durante l’assedio di Ramallah, siamo state ad uno spettacolo di El Funoun. Un modo per non pensare alle bombe e al coprifuoco. Ricordo che ero in piedi su una sedia per vedere meglio e quando li ho visti ballare ho pensato “Voglio danzare con loro”. Così ho cominciato».

I ragazzi vanno via alla spicciolata, appuntamento il prossimo sabato per un nuovo allenamento. «Ci alleniamo tre volte a settimana – continua Aya, mentre chiude lo zaino pieno di libri dell’università –. Il mio sogno è aprire un giorno una mia compagnia. Qua mi trovo a mio agio perché so di lavorare sulla mia identità. Israele è riuscito a dividerci fisicamente, ma non culturalmente. Molti di noi hanno paura di perdere la propria identità, per questo il lavoro che facciamo con El Funoun mi riempie di gioia. So di dare qualcosa al mio popolo, di ricordargli chi è e da dove viene».

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