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Scioperi della fame, l’arma estrema

Giorgio Bernardelli
16 marzo 2012
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Scioperi della fame, l’arma estrema
L'attivista del Bahrein, Abdulhadi Alkhawaja.

Vanno avanti gli scioperi della fame nelle carceri. E non solo tra i palestinesi: sulla ribalta dei social network - il termometro più interessante degli umori della primavera araba - in queste ore sta emergendo anche il caso del Bahrein, dove l'attivista Abdullhadi Alkhawaja è arrivato già al trentasettesimo giorno di sciopero della fame...


Vanno avanti gli scioperi della fame nelle carceri. E non solo tra i palestinesi: sulla ribalta dei social network – il termometro più interessante degli umori della primavera araba – in queste ore sta emergendo anche il caso del Bahrein, dove l’attivista Abdullhadi Alkhawaja è arrivato già al trentasettesimo giorno di sciopero della fame. Al trentesimo è invece Hana Shalabi, la donna palestinese che protesta per la detenzione amministrativa. Così da ieri sera le due battaglie viaggiano insieme sotto lo stesso hastag (la parola chiave di Twitter) #arabhungerstrikers. Confermando che – dopo il caso di qualche settimana fa di Khaled Adnan – quella degli scioperi della fame in carcere è una linea di tendenza importante nell’attuale fase della primavera araba.

Di fronte a situazioni bloccate e finite ai margini dell’attenzione del mondo l’astenersi dal cibo, mettendo in conto anche la morte, è la forma di protesta estrema che sta prendendo piede nel mondo arabo. Il caso di Abdulhadi Alkhawaja in Bahrein è quanto mai eloquente. Il piccolo Stato del Golfo Persico governato dall’emiro Hamad bin Isa Al Khalifa, un anno fa, era stato uno dei primi posti dove il vento della Tunisia si era fatto sentire. In una situazione in qualche modo speculare rispetto a quella della Siria, gli sciiti – che sono la stragrande maggioranza della popolazione – erano scesi in piazza per chiedere democrazia contro il sovrano sunnita, che è sostenuto dai sauditi. E alla fine il 14 marzo 2011 proprio le truppe di Riyadh – su richiesta dell’emiro – erano intervenute, stroncando nel sangue la protesta. Il tutto con il tacito consenso di Washington, perché il Bahrein è la sede della Quinta Flotta (altra analogia con la Siria, dove è la Russia ad avere un’importante base navale a Tartus).

Abdulhadi Alkhawaja – storico attivista per i diritti umani, referente per il Bahrein di Amnesty International e di altre organizzazioni – è stato uno dei protagonisti della protesta e per questo è finito in carcere. Il 22 giugno – insieme ad altri otto attivisti – è stato condannato all’ergastolo. Una condanna passata sotto silenzio come l’intera vicenda del Bahrein, da tempo sparita dalle cronache perché estremamente scomoda per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti. Ce ne siamo talmente dimenticati che dal 20 al 22 aprile quest’anno in Bahrein è in calendario normalmente il Gran premio di Formula Uno, che era stato invece annullato nel 2011 proprio per via della situazione politica incandescente. È in questo contesto, dunque, che Alkhawaja – dopo aver visto quanto accaduto in Israele intorno al caso Adnan -, ha scelto la strada dello sciopero della fame. E ormai si sta avvicinando a quella che è ritenuta la soglia critica.

È estremamente significativo, però, il fatto che la sua protesta si stia saldando con quella di Hana Shalabi e degli altri palestinesi che contestano la pratica della detenzione amministrativa, cioè il carcere senza un regolare processo comminato dalle autorità israeliane. Anche il caso di Hana Shalabi, altra militante legata al Jihad islamico, è significativo: dopo aver trascorso ben 25 mesi in detenzione amministrativa, era stata liberata in ottobre nell’ambito dello scambio di prigionieri che ha portato alla liberazione di Gilad Shalit. In febbraio, però, è stata fermata di nuovo e posta ancora in detenzione amministrativa per «ragioni di sicurezza», pena che sta scontando a Ofer, il grande carcere israeliano della Cisgiordania. Da allora è in sciopero della fame; in una sorta di staffetta ha raccolto il testimone di Khader Adnan, che ha interrotto il suo digiuno il 21 febbraio al sessantaseiesimo giorno, dopo che i suoi legali hanno raggiunto un accordo in forza del quale il 17 aprile sarà rilasciato. Anche la battaglia di Hana Shalabi non è rimasta isolata: come racconta l’agenzia Maan attualmente ci sono altri 23 palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane per protesta contro la detenzione amministrativa. E per sabato 17 marzo fuori dal carcere di Ofer è stata indetta una manifestazione di protesta che si annuncia molto calda.

Un’ultima osservazione: in Palestina questa battaglia delle carceri sta facendo salire la popolarità del Jihad islamico, che è un movimento filo-iraniano. Ed è una chiave importante per capire anche quanto è successo in questi giorni a Gaza. Nell’ultima settimana dalla Striscia sono stati sparati più di 200 razzi contro Israele – un numero mai visto in così poco tempo – in risposta all’ennesima «esecuzione mirata» messa in atto dallo Stato ebraico, quella di un leader dei Comitati di resistenza popolare, altro gruppo autonomo rispetto ad Hamas. Anche in questa «risposta» il Jihad islamico ha giocato il ruolo maggiore con un obiettivo preciso: mettere in difficoltà Hamas che – all’opposto – ha cercato fin da subito con Israele una tregua mediata dall’Egitto. Tregua entrata in vigore, ma che gli islamisti al potere a Gaza non riescono a controllare fino in fondo, come spiega bene l’articolo di Yediot Ahronot che rilanciamo sotto. Si stanno rimescolando completamente le carte in Palestina. E il dopo Abu Mazen si gioca molto più dentro queste manovre che nel sempre più inconcludente negoziato tra le fazioni.

Clicca qui per leggere su Wikipedia chi è Abdulhadi Alkhawaja

Clicca qui per seguire su Twitter gli aggiornamenti sulla vicenda di Abdulhadi Alkhawaja

Clicca qui per leggere gli aggiornamenti di Maan sul caso di Hana Shalabi

Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot

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