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I monaci di Mar Musa in Iraq

Lucia Balestrieri
18 gennaio 2012
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I monaci di Mar Musa in Iraq
Monaci di Mar Musa durante una celebrazione liturgica. In primo piano, al centro, fratel Jens. (foto Deir Mar Musa)

Sono tanti i cristiani iracheni che continuano a fuggire dalla loro patria, ancora una volta incendiata dal fuoco della violenza interetnica e interreligiosa. Ma vi è anche chi in Iraq arriva, per dare conforto e aiuto alle comunità locali. È un piccolo gruppo di monaci e monache provenienti da un altro Paese martoriato, come la Siria...


(Milano) – Sono tanti i cristiani iracheni che fuggono in queste settimane dalla loro patria, ancora una volta incendiata dal fuoco della violenza interetnica e interreligiosa. Ma vi è anche chi arriva in Iraq, in completa controtendenza, per dare conforto e aiuto alle comunità locali. È un piccolo gruppo di religiosi stranieri provenienti da un altro Paese martoriato, la Siria. Si tratta di un monaco, tre postulanti e una novizia (di origini occidentali, ma arabofoni), inviati da padre Paolo Dall’Oglio per fondare nel Kurdistan iracheno un luogo di preghiera e di incontro con l’islam simile al monastero siriano di Mar Musa, da lui ristrutturato nel deserto siriano e divenuto meta e faro internazionale, per cristiani e musulmani, di un dialogo da molti ritenuto impossibile. La decisione di trasformare l’antica parrocchia della Vergine Maria, nel cuore della cittadina curda irachena di Sulaymanya, in un simbolo di speranza e impegno, che possa dare nuove prospettive ai cristiani rimasti, era stata presa più di un anno fa dal vescovo Luis Sako, responsabile anche dell’eparchia (la diocesi delle Chiese d’Oriente) di Kirkuk. Ne aveva parlato con padre Paolo, che aveva accettato con entusiasmo.

Nonostante che il monastero siriano di Mar Musa sia venuto a trovarsi, nel frattempo, isolato e assediato pericolosamente dalle violenze politiche scoppiate in Siria, e lo stesso padre Paolo costretto al silenzio dalle autorità di Damasco, già pronte ad espellerlo, il progetto è andato avanti. Fratel Jens Petzold, capo della piccola missione in Iraq, ci racconta, in una email, che è giunto a Sulaymanya, poco prima di Natale, mentre i soldati statunitensi stavano lasciando il Paese. Ora vive in un appartamento di fronte alla parrocchia della Vergine Maria: nella chiesa, si ridipingono le sale che ospiteranno i visitatori, si stuccano le crepe e, al posto delle vecchie panche e degli inginocchiatoi, in pieno accordo con il vescovo Sako, si srotolano i tappeti per la preghiera, secondo gli usi del primitivo cristianesimo orientale e dell’islam. Lo scenario non sarà quello ascetico e ricco di suggestioni delle montagne e delle distese desertiche siriane, ma una città ormai completamente ricostruita, arruffata e in espansione: lo scopo tuttavia è identico, cercare di creare un luogo dove ogni credente, a prescindere dalla sua fede, possa trovarsi a casa sua, imparare il dialogo. E pregare. Perché di «preghiere per la riconciliazione» l’Iraq ne ha bisogno quanto la Siria, ci spiega fratel Jens.

Il monaco riferisce di aver lasciato un Paese, la Siria, «all’inizio di una guerra civile», e di essere giunto in un altro, l’Iraq, dove «ombre» e «segnali ambigui» fanno presagire «una nuova valanga di violenze», che potrebbero allargarsi, a suo avviso, anche a regioni che ne sono state di recente relativamente immuni, come appunto il Kurdistan iracheno.

Fratel Jens sarà presto raggiunto dai suoi compagni di avventura: tre postulanti (Fabiana, Frederike e Luis) e una novizia (Carol). La comunità sarà composta -come Mar Musa – da monaci e monache e sarà aperta a coloro che vi si vorranno fermare. Il sostegno economico assicurato da mons. Sako non basta. Lo stesso padre Jens, nei mesi scorsi, è andato in giro per l’Europa a raccogliere fondi per l’iniziativa, ma i monaci dovranno anche lavorare per autofinanziarsi. Può sembrare paradossale che a mobilitarsi per rincuorare i cristiani dell’Iraq, con una testimonianza concreta fatta di persone e soldi, sia una realtà così piccola e in sofferenza come quella siriana di Mar Musa. Forse, però, non lo è più di tanto, considerato che la comunità internazionale è più interessata – per dirla con le parole del vescovo di Mosul, mons. Georges Casmoussa – ad accordi commerciali e petroliferi con le varie componenti irachene che a fare pressioni per una efficace difesa delle minoranze e dei diritti umani. L’atto di coraggio di padre Jens e degli altri monaci verso l’Iraq è un ulteriore invito a riflettere sulla solitudine dei cristiani del Medio Oriente.

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