Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Cattolici maroniti, Chiesa in cammino

Daniel Attinger
27 gennaio 2012
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La Chiesa maronita è l’unica, fra le Chiese orientali presenti in Terra Santa, a non avere un equivalente «ortodosso». È infatti interamente in comunione con Roma. La sua presenza in Terra Santa è piuttosto debole (circa 8 mila fedeli), mentre il suo «feudo» tradizionale è il Libano, dove gioca anche un importante ruolo politico. È però significativa per la sua storia tormentata. I maroniti fanno risalire la loro origine a un eremita che visse in Siria, per lo più a cielo aperto, a nord di Aleppo nel IV secolo, mar Marun (san Marone), di cui sappiamo pochissimo: solo alcune righe scritte da Teodoreto di Ciro, vescovo e storico della Chiesa del v secolo.

Mentre le Chiese si caratterizzano solitamente per la loro continuità, quella maronita invece sembra segnata da discontinuità, e ciò fin dai suoi inizi. Mar Marun visse e morì nel IV secolo ma i suoi discepoli fondarono il monastero che porta il suo nome, origine della Chiesa maronita, solo verso il 452, non già sul luogo della sua sepoltura, bensì in Apamea, circa cento chilometri più a sud, forse favoriti dalla politica bizantina che voleva difendere e rinforzare le decisioni del concilio di Calcedonia contro la Chiesa siriaca che le rifiutava. Un’altra rottura avvenne nel 680, quando i maroniti, che in un tempo di vacanza patriarcale ad Antiochia avevano eletto un loro patriarca, rifiutarono la decisione del concilio di Costantinopoli che condannava la dottrina monotelita (l’affermazione cioè di una sola volontà in Cristo); si ritrovarono quindi separati sia dalla grande Chiesa, sia dalle Chiese non calcedonesi. Nuova discontinuità nel 938: a causa della persecuzione, i maroniti lasciano il loro territorio siriano di origine e si trasferiscono nel Monte Libano. Al tempo delle crociate poi, contrariamente alle altre Chiese, faecero causa comune con i crociati; ciò favorì la comunione con Roma, forse già al momento della conquista di Gerusalemme nel 1099, ma soprattutto nel 1182, quando abiurarono il monotelismo. Ciò condusse a una forte latinizzazione del rito maronita, che viene ora arginata dal ricupero delle sue caratteristiche antiochene (inni tradizionali, uso del siriaco nella liturgia eucaristica, ecc.).

Altra rottura nel 1440: sotto la pressione del potere mamelucco, i maroniti abbandonano la loro regione per rifugiarsi nella Qadishà (la Valle santa), una delle zone più inaccessibili del nord-est libanese. E le discontinuità si succedono fino a oggi: l’insicurezza politica nel XX secolo fino all’ultima guerra del Libano (1975-1990) ha provocato una forte emigrazione verso l’Occidente e l’Australia, e anche, recentemente, verso Israele, senza più desiderio di ritorno: la Chiesa maronita ha mandato preti e vescovi nelle nuove terre di adozione, a tal punto che al Sinodo maronita tenutosi in Libano nel 2003, quattro erano le lingue ufficiali: l’arabo, il francese, l’inglese e lo spagnolo. Risulta da ciò la straordinaria capacità dei maroniti di adattarsi a situazioni nuove: da monastica è diventata Chiesa di un popolo, da rurale è diventata soprattutto urbana, da strettamente libanese, è diventata una comunione internazionale (circa due terzi dei maroniti vivono tra Europa, America del Nord e del Sud e Australia).

In Israele, sono presenti soprattutto in Galilea (11 parrocchie), sotto la giurisdizione del vescovo maronita di Haifa, che a Gerusalemme esercita la funzione di vicario (esarca) patriarcale maronita (con giurisdizione su Gerusalemme, Giordania e Territori Palestinesi).

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