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Gilad, Hamas e Netanyahu

Giorgio Bernardelli
14 ottobre 2011
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Gilad, <i>Hamas</i> e Netanyahu
Un primo piano del caporale Gilad Shalit.

Martedì prossimo, dopo cinque anni di prigionia, il caporale israeliano Gilad Shalit dovrebbe essere liberato in Egitto. Contemporaneamente i primi 450 detenuti palestinesi - dei 1.027 concordati - lasceranno le carceri israeliane. Non può che essere questa la notizia del momento sia in Israele sia in Palestina...


Martedì prossimo, dopo cinque anni di prigionia, il caporale israeliano Gilad Shalit dovrebbe essere liberato in Egitto. Contemporaneamente i primi 450 detenuti palestinesi – dei 1.027 concordati – lasceranno le carceri israeliane. Non può che essere questa la notizia del momento sia in Israele sia in Palestina, l’accordo tra il governo Netanyahu e Hamas per la liberazione di Shalit. Accordo che sembrava impossibile e invece è arrivato esattamente nei termini su cui si discuteva ormai da anni. Perché ci si è arrivati? E come mai proprio adesso? La ragione è molto semplice: Netanyahu, Hamas e i generali egiziani avevano disperatamente bisogno di un risultato da sbandierare di fronte alla propria opinione pubblica. Così il compromesso è arrivato.

Ci sarebbero tanti aspetti da sviscerare in questa lunghissima storia. Ma a me qui interessa concentrarmi su di uno: il risultato che porta a casa Hamas. Mai come negli ultimi mesi il movimento islamista che governa la Striscia di Gaza è apparso in difficoltà: ci sono state le manifestazioni di dissenso represse a Gaza, gli imbarazzi per quanto sta accadendo in Siria, il dato politico di ritrovarsi scavalcato dall’iniziativa di Abu Mazen all’Onu che ha riportato la questione palestinese al centro del dibattito internazionale. Nelle ultime settimane, poi, è arrivata addirittura una decisione clamorosa (passate però quasi inosservata): d’ora in poi agli stranieri che vorranno entrare nella Striscia verrà chiesto un visto di ingresso. Una chiara misura di polizia, abbastanza paradossale in un posto di cui tutto il mondo condanna l’isolamento. Ma evidentemente Hamas ha paura di quanto si sta muovendo nella società anche a Gaza e non vuole testimoni scomodi.

Per tutti questi motivi la dirigenza del movimento ha deciso di giocarsi adesso la carta Shalit. Accettando anche compromessi notevoli: il numero di 1.027 detenuti non deve ingannare; i pezzi da novanta (non solo Marwan Barghouti, di Fatah, ma anche quelli di Hamas) rimangono in carcere. Eppure il successo politico ottenuto di fronte all’opinione pubblica palestinese è notevole. Da fuori è molto difficile cogliere sul serio che cosa rappresenti davvero in Palestina la questione dei detenuti: ce ne sono oltre diecimila nelle carceri israeliane, praticamente uno per famiglia. E non sono tutti direttamente responsabili di attentati suicidi, come si vorrebbe far credere. Tra quelli che usciranno grazie a questo accordo ce ne sono parecchi che stanno dietro le sbarre dalla prima intifada, la rivolta delle pietre scoppiata nel 1987. Altri vengono liberati perché gravemente malati. Si tratta di una vittoria sociale, dunque, molto più che di una questione di lotta armata o sicurezza di Israele.

Dunque adesso gli equilibri si ribaltano, con Abu Mazen impantanato all’Onu e Hamas vittoriosa in Palestina? Dipende. Come scrive oggi Akiva Eldar su Haaretz sta a Israele deciderlo. Netanyahu finora non ha accettato di sedersi al tavolo di un negoziato bastato sui confini del 1967 e il blocco degli insediamenti. Invece ha trattato su come riportare a casa un soldato catturato in un’azione di forza commessa da milizie palestinesi. Sta in questa diversità di comportamento il nodo: trattare con i palestinesi solamento uno scambio di prigionieri veicola il messaggio che la lotta armata paga. Ma se Israele davvero si ferma qui, deve già prepararsi al rapimento del prossimo soldato.

Se non vuole che ancora una volta la sua vittoria sia anche quella di Hamas, dunque, Benjamin Netanyahu dovrebbe mostrare la stessa disponibilità al compromesso sulla questione del blocco degli insediamenti e far ripartire così il negoziato. Perché – come si è rinviata per anni la soluzione del caso Shalit, lasciando un proprio soldato a marcire chissà dove – a una discussione vera sullo Stato palestinese un giorno ci si dovrà per forza arrivare. E a dirlo non siamo solo noi, ma anche una fonte decisamente insospettabile: come racconta, infatti, Julie Holm sul sito palestinese Miftah, proprio mentre negli Stati Uniti il Congresso blocca i fondi all’Autorità Palestinese uno dei simboli Usa per eccellenza – la catena di fast food Kentucky Fried Chicken – ha aperto un proprio negozio a Ramallah. E anziché divenire il bersaglio del più classico antiamericanismo in questi giorni è affollatissimo di palestinesi; il tutto nonostante le decine di fast food locali che offrono lo stesso pollo fritto. La verità è che il mondo degli affari globalizzati ha già digerito da tempo lo Stato palestinese. Checché ne dicano Netanyahu e i suoi amici.

Clicca qui per leggere l’articolo di Akiva Eldar

Clicca qui per leggere l’articolo di Miftah

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