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Palestina nell’Onu, Abu Mazen non indietreggia

Terrasanta.net
6 settembre 2011
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Palestina nell’Onu, Abu Mazen non indietreggia
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas parla davanti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York.

Si approssima il giorno in cui dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il governo palestinese chiederà che venga discussa l’ammissione della Palestina nell’Organizzazione internazionale come Stato membro a pieno titolo. Il presidente Abu Mazen sembra determinato a non ripensarci. Nonostante il rischio di una sconfitta diplomatica.


(Milano/g.s.) – Si avvicina il martedì della terza settimana di settembre, giorno in cui ogni anno si inaugura a New York una nuova sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel corso dei lavori il governo palestinese, che all’Onu è rappresentato da un ambasciatore in qualità di osservatore permanente, chiederà che venga discussa l’ammissione della Palestina nell’Organizzazione internazionale come Stato membro a pieno titolo.

Israele sta promuovendo da mesi campagne mediatiche e pressioni diplomatiche sui governi amici perché l’istanza venga respinta: la nascita di uno Stato palestinese sovrano e indipendente, dice il governo Netanyahu, non può che essere frutto di negoziati bilaterali tra i responsabili dei due popoli che coabitano in Israele/Palestina. Washington si allinea e si dice pronta a mettersi per traverso. Il problema è che i negoziati non ripartono e nel frattempo, sul terreno, gli insediamenti israeliani continuano ad allargarsi nei Territori palestinesi occupati.

Ieri il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha ribadito la volontà di non arretrare davanti alle richieste statunitensi e alle minacce israeliane di denunciare gli Accordi raggiunti a Oslo nel 1993. «Non vogliamo delegittimare Israele, ma legittimare noi stessi», ha detto a Ramallah, ricevendo un gruppo di intellettuali israeliani favorevoli alla decisione palestinese di giocare la carta Onu.

Il disegno di Abu Mazen è di tornare più forte al tavolo negoziale, dopo un’eventuale riconoscimento da parte delle Nazioni Unite, per definire le questioni irrisolte con Israele e mettere fine al conflitto. È una scommessa rischiosa che potrebbe anche risolversi in un fallimento e in un definitivo tramonto della sua leadership. Le posizioni dei due contendenti restano molto distanti, se non inconciliabili, soprattutto su due punti: il diritto al ritorno dei profughi palestinesi nelle proprietà abbandonate nel 1948 e oggi in territorio israeliano; la questione di Gerusalemme, che entrambe le parti rivendicano come propria capitale.

Ieri Mahmoud Abbas ha anche ricordato ai suoi ospiti che nel recente passato, a più riprese, tanto il presidente Usa Barack Obama quanto il Quartetto per il Medio Oriente (Onu, Usa, Unione Europea e Russia) avevano auspicato la nascita dello Stato palestinese entro l’autunno 2011 e apprezzato l’impegno già profuso nel creare una struttura di governo e apparati di sicurezza all’altezza delle attese. In realtà molte cose ancora non funzionano in casa palestinese: le elezioni politiche e amministrative vengono continuamente rinviate e gli impegni assunti il 4 maggio scorso al Cairo con gli accordi di riconciliazione tra il movimento islamista Hamas e il laico Fatah non sono stati rispettati (una volta di più).

Benjamin Netanyahu, per altro contrario a qualunque trattativa ufficiale con una compagine che includa Hamas (almeno fino a quando quest’ultimo non riconoscerà la legittimità e il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele come Stato ebraico), continua a lagnarsi del rifiuto palestinese di tornare a negoziare. Ricevendo ieri a Gerusalemme il primo ministro belga Yves Leterme, s’è detto pronto a un faccia a faccia con Abu Mazen in ogni momento. Il suo governo, però, nel frattempo non intende congelare l’espansione israeliana nei Territori. Così, ognuno tira dritto per la sua strada.

 

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