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Il prezzo della democrazia

Giuseppe Caffulli
6 agosto 2011
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Il prezzo della democrazia
Manifestanti in piazza Tahrir, Il Cairo.

Dopo l’imponente manifestazione che il 29 luglio scorso ha portato in piazza Tahrir, al Cairo, un’immensa folla musulmana, appare ormai probabile che la rivoluzione egiziana possa sortire effetti contrari a quelli sperati. Più si avvicina la scadenza elettorale, più appare probabile che i partiti islamisti possano conquistare la maggioranza assoluta in parlamento.


(Milano) – Dopo l’imponente manifestazione che il 29 luglio scorso ha portato in piazza Tahrir, al Cairo, un’immensa folla musulmana, appare ormai probabile che la rivoluzione egiziana possa sortire effetti contrari a quelli sperati. E più si avvicina la scadenza elettorale (prevista prima a settembre, poi posticipata a novembre), più appare nell’ordine naturale delle cose che i partiti islamisti possano conquistare la maggioranza assoluta in parlamento. In quel parlamento che avrà la responsabilità di scrivere la nuova costituzione dell’Egitto dopo-Mubarak (il padre padrone del Paese che, proprio in questi giorni, è sottoposto a processo per le dure repressioni ordinate nei giorni della rivoluzione di gennaio).

La prospettiva di uno strepitoso successo elettorale dei partiti islamisti preoccupa ovviamente molti attori regionali e internazionali (Israele e Stati Uniti in testa). Ma è un’eventualità che solo a caro prezzo può essere respinta e che va considerata – piaccia o meno – parte integrante del difficile cammino dell’Egitto contemporaneo verso un nuovo assetto (che ci auguriamo  democratico).

A dare retta ai sondaggi che (anche in quella parte di mondo) hanno sempre più peso, il 50 per cento degli egiziani sarebbe orientato a dare il proprio voto ai Fratelli musulmani; un altro 27 per cento sarebbe attratto dalle posizioni ancora più estremiste dei Salafiti, rappresentati dal Partito della Luce. L’alleanza tra le due formazioni, se saranno confermati i numeri dalle urne, creerà in parlamento un blocco islamico davvero imponente. E permetterà la nascita di un governo fortemente orientato, capace di dominare la scena politica egiziana in tutti i suoi aspetti.

In questo quadro sono assolutamente comprensibili le paure della minoranza cristiana nel Paese, che teme di essere emarginata ulteriormente dalla classe politica islamica, che si sta facendo largo nell’opinione pubblica con slogan semplici quanto efficaci: «L’ islam è l’ identità dell’Egitto, il suo passato e il suo futuro». E ancora: «Gli Stati secolari e socialisti hanno fallito in Turchia e in Russia. Vogliamo uno Stato islamico che applichi la legge di Dio».

Nonostante qualcuno paventi per l’Egitto il rischio di una involuzione di stampo iraniano, vanno tenuti presenti alcuni fattori. Il primo: una larga parte della popolazione egiziana (anche quella religiosamente osservante) non vuole uno Stato basato sulla legge coranica. Ci sono poi le fazioni – oggi minoritarie – che hanno innescato la rivoluzione di piazza Tahrir, a gennaio, fautrici della laicità dello Stato, almeno inizialmente spalleggiate dal Consiglio supremo delle forze armate, l’organismo che sta guidando il Paese nella difficile fase della transizione.

Proprio l’esercito, visto il suo grande peso nella vita pubblica dello Stato e i suoi solidissimi rapporti con gli Stati Uniti, rappresenta un’ulteriore incognita nelle acque agitate della transizione. Si schiererà con i partiti islamici e le loro ambizioni di trasformare l’Egitto in un Paese governato dalla legge coranica? Oppure le scelte dei militari si orienteranno diversamente?

Il rischio è che, alla nascita di un governo espressione dei partiti musulmani, sorga la tentazione di fermare, magari in maniera cruenta (dietro “consiglio” di qualche potenza occidentale) il delicato processo in corso.

È successo in passato in Algeria, dopo la vittoria del Fronte islamico di salvezza, con il colpo di Stato militare e lo scoppio di una sanguinosa guerra civile. È accaduto, con molte significative varianti, in Palestina, dopo la vittoria di Hamas. Il risultato prodotto, lungi dal fermare l’avanzata dell’islam politico e favorire un’evoluzione in senso democratico e moderato dei partiti islamici, è stato finora l’opposto. L’azzeramento del risultato delle urne e la mortificazione della volontà degli elettori (per quanto sgradevole essa possa essere) ha ulteriormente radicalizzato la lotta politica. E ha finito per offrire una sponda, spesso in chiave anti-occidentale, ai movimenti jihadisti e alle cellule del terrorismo islamico.

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