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I delusi di piazza Tahrir

Giuseppe Caffulli
14 luglio 2011
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I delusi di piazza Tahrir
Giovane manifestante egiziano sulla statua di un leone che adorna uno dei ponti sul Nilo, al Cairo.

«La rivoluzione non è finita». «Non torneremo indietro». Una serie di graffiti comparsi sulle mura delle principali città egiziane accompagna da alcuni giorni la ripresa delle manifestazioni di piazza, sfociate in più di una occasione in azioni repressive da parte della polizia. I cambiamenti non maturano e i giovani sono stanchi di aspettare.


«La rivoluzione non è finita». «Il popolo vuole la condanna di Mubarak». «Non torneremo indietro». Una serie di graffiti comparsi sulle mura delle principali città egiziane accompagna da alcuni giorni la ripresa delle manifestazioni di piazza, sfociate in più di una occasione in azioni repressive da parte della polizia (è capitato per esempio al Cairo il 28 e il 29 giugno scorso, quando una manifestazione organizzata in un teatro per commemorare le vittime della rivoluzione è finita nel sangue).

A pochi mesi dalle elezioni legislative previste in autunno, non accenna a calare la tensione nel Paese delle piramidi. Una tensione certamente alimentata dal fastidio crescente con cui l’opinione pubblica egiziana guarda all’opera del Consiglio supremo delle forze armate e del governo di transizione, che non è ancora riuscito a varare le riforme necessarie per far nascere il nuovo Egitto, dopo che il vecchio è stato sepolto il 25 gennaio scorso con la rivolta di piazza Tahrir, nella capitale, e la conseguente caduta del presidente Hosni Mubarak. Sul tappeto ci sono le norme relative all’esercizio dei diritti politici, ma anche (soprattutto) la lentezza della giustizia nell’individuare e punire i responsabili degli eccidi compiuti da polizia e forze speciali fedeli a Mubarak nei giorni della rivolta, quando vennero uccise oltre mille persone e ne furono ferite (anche gravemente) diverse migliaia.

A complicare questo quadro, la presenza delle forze islamiste, che stanno portando avanti una vera e propria battaglia per avere il maggior peso possibile nel futuro parlamento (che dovrà scrivere la nuova Costituzione). Già da tempo, specie nei quartieri più poveri, i militanti del movimento dei Fratelli musulmani sono all’opera per conquistare le più ampie fasce possibili di elettorato.

Oltre alla disillusione sul percorso del Paese verso la transizione, ad aggravare il clima di tensione che si respira in Egitto è la sensazione – in estrema sintesi – che nulla in realtà sia cambiato a livello di redistribuzione della ricchezza, di lotta alla corruzione e all’analfabetismo. L’Egitto post-rivoluzionario è infatti alle prese con una pesante crisi economica e con l’esplosione dei prezzi dei principali generi alimentari. Una situazione solo in parte mitigata dagli sforzi del governo volti a reperire (anche su scala internazionale) risorse da destinare al sostegno delle famiglie sotto la soglia della povertà. Tra i provvedimenti allo studio, anche l’innalzamento delle pensioni (30 per cento) e il salario minimo per gli operai.

Il malcontento popolare comunque monta e si riversa come un fiume – nuovamente – sui social network che tanta parte hanno avuto nell’entusiasmare le masse della «primavera araba». «È facile constatare come non si muova nulla – scrive Mohamed Mursi, 28 anni, su Facebook –. Il governo e il Consiglio supremo delle forze armate hanno fatto solo vuote promesse».

«La paura è che gli obiettivi della rivoluzione vengano dimenticati, perché ormai sono impegnati a trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione che si è creata», commenta amaro Amr Osama. Midal, come molti altri, non è però disposto a rinunciare al sogno di un Egitto libero e democratico. E ha le idee chiare su cosa occorre per non far appassire i fiori della primavera del Cairo: «Non dobbiamo mollare, la rivoluzione non è finita. Ritorniamo a piazza Tahrir».

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