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Assad sul filo del rasoio

Giorgio Bernardelli
29 marzo 2011
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Assad sul filo del rasoio
Il presidente siriano Bashar al-Assad.

Dopo Egitto e Tunisia e con la guerra in corso in Libia ora è il turno della Siria. Partita infinitamente più importante di quella libica per gli equilibri della regione. Anche se guardando i nostri tg sembrerebbe esattamente il contrario. Eccoci allora a parlare di Damasco, crocevia fondamentale per il futuro della rivoluzione del 2011.


Dopo Egitto e Tunisia e con la guerra in corso in Libia ora è il turno della Siria. Partita infinitamente più importante per gli equilibri della regione rispetto a quella che si sta combattendo tra Tripoli e Misurata. Anche se guardando i nostri tg sembrerebbe esattamente il contrario. Del resto abbiamo anche già smesso di guardare dentro a che cosa sta succedendo al Cairo, dove invece proprio ieri i militari hanno varato le nuove norme sui partiti e la vera sfida si giocherà da qui a settembre, quando probabilmente si terranno le elezioni.

Personalmente credo che tutta questa vicenda stia mostrando una grande debolezza nel modo attuale di raccontare il mondo: riduciamo tutto al melodramma del Gheddafi di turno e non siamo più capaci di uno sguardo più complessivo, di vedere i cambiamenti veri, le dinamiche che attraversano intere regioni del mondo. Come se in gioco ci fosse davvero solo la sopravvivenza o meno di questo o quel leader e non invece il futuro di una generazione che non è più possibile rinchiudere dentro a confini sostanzialmente fittizi.

Eccoci allora a parlare di Damasco, crocevia fondamentale per il futuro della rivoluzione del 2011. Perché la Siria sia così importante lo sottolinea molto bene Rami Khoury nell’articolo del quotidiano libanese The Daily Star che rilanciamo qui sotto. Tenendo presente che Khoury parla insieme di Siria e Giordania, altro Paese dove l’idea che le riforme promesse da re Abdallah abbiano arginato davvero le proteste è tutta da verificare. Giordania e Siria – scrive il commentatore libanese – sono Paesi che hanno legami molto stretti con Palestina, Israele, Libano, Iran, Iraq e Arabia Saudita. Dunque quanto sta succedendo a Daraa e Latakia è qualcosa di destinato a lasciare il segno in un bacino enorme. Ed è molto interessante notare come su Yediot Ahronot oggi compaia un articolo che racconta come Assad abbia provato a giocare la solita carta, quella secondo cui la rivolta in corso sarebbe tutta una congiura del Mossad (il servizio segreto israeliano – ndr). Già alcune settimane fa aveva dichiarato che lui non avrebbe avuto i problemi di Mubarak e re Abdallah di Giordania perché la Siria non ha firmato un trattato con Israele. Evidentemente i siriani non la pensavano così… Ha ragione quindi Khoury a sostenere che «non solo il Nord Africa ma anche il Levante ormai sta girando pagina, anche se nessuno sa ancora davvero per andare verso dove».

Va aggiunto, però, che il mosaico siriano è molto complesso, e questo aspetto lo ricorda bene sul suo blog Joshua Landis uno dei maggiori esperti americani in tema di Siria. In un Paese a maggioranza sunnita come la Siria, il regime è guidato da Assad che è un alawita, cioè un esponente di una particolare minoranza sciita che ha la sua roccaforte proprio a Latakia. Un puzzle complesso, dunque, che per più di quarant’anni ha tenuto grazie all’alleanza tra gli Assad, l’esercito e le élite sunnite. E che oggi entra in crisi nel momento in cui il Medio Oriente torna a fare i conti con le masse: anche qui la spinta è il malcontento dei giovani che sono rimasti fuori dalle opportunità del boom economico di questi ultimi anni e dunque vivono ancora senza vere prospettive. In Siria, però, l’esercito appare molto meno disposto che in Egitto o in Tunisia a scaricare Assad, perché questo potrebbe voler dire l’implosione del Paese. Non dimentichiamo che qui i confini sono ancora quelli tracciati nel 1916 da inglesi e francesi con l’accordo Sykes-Picot. Per questo motivo Landis sostiene che è difficile pensare a un atterraggio morbido per Damasco.

Morale: siamo ancora all’inizio di quest’ondata che sta scuotendo il Medio Oriente. E mi limito solo a ricordare che il 30 marzo è la Giornata della terra, cioè una delle giornate simbolo della causa palestinese. I giovani di Gaza e Ramallah hanno già annunciato che non si lasceranno sfuggire l’occasione. Ma, considerato il fatto che la Knesset ha appena approvato la contestatissima Nakba Law – la legge che toglie i finanziamenti pubblici a qualsiasi villaggio o associazione che commemori la sconfitta araba del 1948 -, non mi stupirei se questa volta anche i giovani arabi israeliani decidessero di battere un colpo.

Clicca qui per leggere il commento di Rami Khoury su The Daily Star

Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot

Clicca qui per leggere il post pubblicato da Joshua Landis sul suo blog

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