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Pace, la ricetta di Trastevere

Daniele Civettini
11 febbraio 2011
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Questo libro curato da Roberto Morozzo della Rocca, racconta l’operato della Comunità di Sant’Egidio nella costruzione della pace in Paesi vessati da conflitti atavici, in parallelo ad una diplomazia «ufficiale» non sempre pienamente efficace. Il volume conduce il lettore a vedere dall’interno le trattative facilitate dall’«Onu di Trastevere» nell'intento di seminare fiducia e dialogo.


Fare pace. Come i bambini, quando litigano: li si educa ad interrompere il contenzioso, a guardarsi nuovamente in volto, a stringersi la mano, e di solito il sole non tramonta sopra la loro ira. Ma nel mondo, appena si fa un passo fuori dall’Occidentale, fare pace significa decidere se concedere la vita o toglierla a moltitudini di persone, spesso dimenticate.

Fare pace, libro curato da Roberto Morozzo della Rocca, racconta l’operato della Comunità di Sant’Egidio nella costruzione della pace in Paesi vessati da conflitti atavici, in parallelo ad una diplomazia «ufficiale» non sempre pienamente efficace. Come in Mozambico, dove prima del 1992 la guerra civile tra comunisti e anticomunisti ha provocato un milione di morti, quasi tutti civili. Come in Guatemala, dove gli strascichi di un regime salito al potere senza voti nel 1954 hanno provocato uno stato di guerriglia permanente quasi quarantennale. E ancora, Albania, Burundi, Liberia, Algeria, Costa d’Avorio: tutti focolai di guerra dove ai «dilettanti» di Sant’Egidio è riuscito di impostare solidi percorsi di riconciliazione sfociati, certo anche con l’ausilio dei dialogatori di mestiere e degli organismi internazionali, in cammini di rinascita nazionale tuttora faticosamente in piedi. Anche in Kosovo, dove gli eventi hanno preso una piega purtroppo assai diversa da ciò che si sperava, si era comunque ottenuto di far sedere i belligeranti attorno a un tavolo con qualche timido accenno di dialogo.

Ma come si fa la pace nel mondo senza l’imposizione di un nuovo ordine da parte di denari o armi straniere? Otto contributi nel volume narrano dall’interno le trattative provocate, condotte, facilitate, accompagnate dall’«Onu di Trastevere» nei Paesi summenzionati, oltre a due articoli supplementari dove vengono presentate le iniziative e i giudizi relativi a due altri ambiti di rilevanza globale come la battaglia contro l’Aids e quella contro la pena di morte.

L’intuizione principale che si evince è quella di rendere le stesse parti in conflitto, nella figura dei loro leader (in certi casi veri e propri combattenti in attività), pienamente protagoniste dei processi di pace, tramite il recupero collettivo di un senso di appartenenza nazionale, capace di indirizzare lo sguardo verso il bene comune. È un approccio che si potrebbe quasi definire «educativo», se non fosse che la posta in palio sia stata spesso altissima: la pace è costata ad alcuni politici una rinuncia volontaria al potere e alla sicurezza personale; la pace ha posto il problema di ricollocare nella società civile milizie aduse a vivere di guerra; la pace ha sempre comportato, per intere popolazioni e quindi per la responsabilità dei diversi leader, l’onere di seppellire, con lo sguardo rivolto al futuro, tremende violenze subite. E per conseguire questi obiettivi, paradossalmente, è necessario percorrere la via più lunga. Occorre tessere con pazienza una rete capillare di rapporti umani sul territorio, serve non porsi limiti di tempo, è necessario quasi «provocare» la fiducia tra gli interlocutori e fare di tutto purché questa fiducia si conservi.

E l’esperienza della Comunità di Sant’Egidio si potrebbe appunto descrivere come un’alchimia riuscita tra una certa illimitata fiducia verso la capacità di bene dell’uomo e un estremo realismo rispetto a tutto ciò che di contingente accompagna le pieghe della storia: le caratteristiche economiche e politiche di un luogo, la sua stessa storia, persino i temperamenti dei singoli individui, grandi o piccoli, chiamati ad essere, ciascuno nel proprio ambito, operatori di pace.

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